Bronzi di Riace. Ipotesi sui probabili autori

Bronzi di Riace. Ipotesi sui probabili autori

di Giuseppe Braghò

(Le bellissime foto inedite a corredo dell’articolo sono di Rocco Romola)

Tante le teorie su chi possano raffigurare le due statue emerse dall’azzurro mar Ionio. Numerose le attribuzioni sugli autori. Il Soprintendente Foti, dopo l’iniziale smarrimento che lo portò a identificarle come “… due statue in bronzo d’epoca ellenistica”, migliorò il tiro affermando che “… in un successivo esame i pezzi, veramente interessanti e in buono stato di conservazione, appaiono opere di arte greca della II metà del V secolo a.C. e sembra che non si tratti di copie ma di originali”. Poco tempo prima della morte, avvenuta il trenta giugno dell’ottantuno, e in precedenza al rientro dei Bronzi dal restauro ricevuto a Firenze, così concludeva: “Adesso le statue appaiono pronte per la loro definitiva esposizione nel Museo Nazionale di Reggio Calabria. Stanno per rientrare nel contesto di opere della cultura antica che loro è naturale. Potranno venire comprese meglio anche come opere uniche della grande arte greca del V sec. a.C. Ho presentato la storia del loro rinvenimento e quella relativa al loro restauro di conservazione. Appena avrò i dati tecnici di costruzione dei capolavori che confermino almeno la suddetta datazione, esprimerò anch’io pareri e ipotizzerò di Fidia, del donario di Maratona a Delfi e delle statue che lo ornavano, anche se esse mancavano già al tempo di Pausania. Sarà più facile e agevole e forse avrò anche una prova di scavo da far valere; oppure farò altre ipotesi. E dopo di me, altri ed altri ancora; delle statue ‘di Riace’ si parlerà a lungo”.

Christos Karousos, valutando le orme e i tratti distintivi dell’arte classica greca, scrisse che sui Bronzi si abbatte “… il colore rosso della vita, la luce del sole, non della luna”, eventualità quest’ultima legata alla remota possibilità che si possa trattare in realtà di opere classicistiche, ipotesi peraltro avanzata nel 1981 dalla Ridgway e rimasta isolata nella propria unicità. Da notare come in genere la maggior parte di studiosi concordi che i maestri esecutori siano stati due, e in epoche discoste. Il Donario degli Ateniesi a Delfi ricorre sovente come luogo titolato ad aver ospitato i Bronzi, fino alla probabile spoliazione da parte dei Romani.

In quest’occasione, si sovrappongono teorie su illustri mandanti o sconosciuti antiquari, al servizio di potenti collezionisti capitolini. Pausania afferma di aver osservato i monumenti stanti, pur se è ancora in discussione che lo storico abbia potuto riferirsi a queste statue. Lo storiografo ha narrato che il gruppo era formato da tredici figure: Atena, Apollo, Milziade e dieci eroi attici. Le spedizioni di sculture greche alla volta dell’Italia s’interruppero con la fine del I secolo d.C. ma Costantinopoli era nondimeno credibile tappa conclusiva per il cammino di molti prodotti artistici di quel tempo. Onatas fu certamente uno degli autori del celebre Donario delfico, però non si trascuri che il citato artista operava ancor prima della creazione della statua A, e questo si desume, tra l’altro, dai dettami stilistici della stessa. Molti ritengono Fidia “padre” del Giovane ma, prudentemente, ricordo come in genere l’affinità complessiva tra le opere d’arte della metà del V secolo a.C. non possa essere solo criterio per imporre la stessa alla mano del sommo caposcuola. Appare impegno arduo fornire attribuzioni precise, anche perché va considerato il periodo, ricco di correnti e soggettività che, intersecandosi, possono ammonire un’arte fidiaca.

Nel Museo dell’Acropoli in Atene si conserva un frammento di testa, copia dello Zeus di Mirone: l’acconciatura dei capelli è verosimilmente identica a quella del capo del Bronzo A; ancora, la testa barbata custodita nel Museo Chiaramonti presenta sorprendenti analogie: naso, occhi, bocca e resa ondulata dei riccioli sono molto somiglianti a quelli offerti dalla magica bellezza del Giovane Riace. Presso il British Museum di Londra si mostra la famosa testa tipo Asclepio degli Uffizi, già attribuita dal Furtwangler a Mirone, il quale pertanto conquista efficace titolo nel concorrere come autore della statua A. Poi, le relazioni stilistiche tra la testa del Discobolo con la testa del Riace A riescono a farci costatare la possibilità che sia stata identica mano a plasmare le opere in confronto. Per la Statua B lo studioso su citato, assieme ad Arias conferma che si possa ritenere Alkamenes autore del capolavoro in seguito alle osservazioni e studi condotti, ad esempio, sulle teste dell’Hermes Propylaios di Atene conservate a Roma in replica l’una e in attribuzione la seconda, ospitata nel Museo ateniese dell’Acropoli. Arias inoltre non respinge l’eventualità che i Bronzi sussistessero in uno degli importanti santuari magno-greci: Taranto, Crotone, Locri, Siracusa. La competenza di Geórgios Dontás sostiene che il Partenone offre, nella lastra VI del fregio est raffigurante Poseidone, una calzante visione di similarità tra i due manufatti: capelli, occhio fisso e labbra piene appaiono parificabili; fu certamente Alkamenes a scolpire il “Vecchio”. A rendere più intricata la faccenda, provvedono qualificati riscontri offerti da altrettanto dotti ricercatori.

Il Professore Emerito di Archeologia Enrico Paribeni, suggerendo la figura dell’indovino Amphiaraos per il Riace B, non esclude per la statua A la collocazione in ambiente della Magna Graecia, considerata l’esistenza nel golfo di Taranto di bronzisti quali Klearchos o Pythagoras: il così detto Giovane ritrarrebbe dunque Aiace d’Oileo. Secondo Claude Rolley l’autore della statua A sfoggia un estro sorprendente per la semplificazione geometrica, con medesima tecnica usata per il Poseidon dell’Artémision: porzione di riccioli della barba sono fabbricati a parte e saldati, al contrario che nella statua B, colati in un sol pezzo fornendo ai peli apparenza diversa e slegando sicuramente paternità e tempo storico dei Bronzi, pur attribuendo medesimo stile attico alle due opere, applicato tuttavia in periodi differenti nell’evoluzione di tale linguaggio. Si ricordi come l’iniziale tentativo d’individuazione dei Bronzi con alcune delle sculture che ornavano il Donario di Maratona e l’assegnazione a Fidia sia stata avanzata nel maggio del settantotto dal Fuchs il quale, a distanza di tre anni, precisava come gli stessi sarebbero prodotto del medesimo atelier attico e credibilmente fidiaco, raffiguranti eroi o re eponimi delle phylai ateniesi. Suggerisce per il Riace B una pura influenza policletea. Lo identifica con Philaios, remoto protagonista eroico appartenente alla stirpe di Milziade. Non molto diverso il parere di Giuliano, che riconosce lo stesso Milziade nella statua A e Leos per la B. Secondo l’Autore i due Bronzi erano sistemati a Roma, portati dalla Grecia: finirono nel mare di Riace dopo un successivo saccheggio avvenuto in epoca imperiale. Per Guzzo (dopo l’iniziale, giovanile disorientamento) si tratta di realizzazioni magno-greche, create verso la metà del V secolo. Il Linnenkamp formula l’ipotesi di due guerrieri, manufatti un po’ pasticciati dell’età ellenistica in ambito alessandrino. Con Pavese si torna nel perimetro della creazione classica, pur se non è condivisa la sistemazione delle statue presso il Donario Ateniese. Isler dichiara nell’ottantatré che i due Riace debbano necessariamente raffigurare guerrieri o eroi che si predispongono a un confronto in armi. Ritiene ancora le opere profitto di razzia compiuto in Grecia o nelle colonie magno-greche in epoca repubblicana e non più tardi della prima fase imperiale. Nel novembre 1995, a un Seminario tenuto in Roma presso l’Accademia dei Lincei, i Professori G. Lombardi e P. L. Bianchetti del Dipartimento di Scienze della Terra de La Sapienza, con il Dott. M. Vidale dell’Istituto Centrale del Restauro, presentarono i risultati delle terre di fusione delle due statue, mostrando che nel Bronzo A vi era la terra di Argo. La relazione, confermata dalla consulenza di geologi greci, fu pubblicata con ampia documentazione nell’opera miscellanea I Bronzi di Riace, Restauro come conoscenza, I, a cura di Alessandra Melucco Vaccaro, Roma 2003, pp. 131-172: la localizzazione ad Argo era asserita anche per il Bronzo B. La coerenza delle due statue, di autori diversi, in una composizione risulta dalla corrispondenza delle misure fondamentali, pubblicata da Claudio Sabbione fin dal 1984. La cronologia è fissata alla metà del V secolo a. C. dai confronti con la ceramica attica, sollecitati tra gli altri dal Prof. Filippo Giudice dell’Università di Catania. Questo insieme di dati è all’origine del riferimento stabilito dal Prof. Paolo Moreno al gruppo dei Sette a Tebe e dei loro discendenti (Epigoni), innalzato dopo la battaglia di Oinoe (456 a. C.) sull’Agorà di Argo: ne resta la base semicircolare affiancata da cippi, uno dei quali con l’iscrizione “degli eroi in Tebe”. L’identificazione di Anfiarao nell’anziano si raccomanda alla traccia sulla nuca per l’applicazione della corona di alloro che sormontava l’elmo dell’indovino, secondo la tradizione letteraria. Tideo si riconosce nel giovane per i denti rivestiti d’argento a risalto con l’ombra dei folti baffi e col rame rosso del labbro inferiore: i denti dell’eroe erano descritti nella lotta “balenanti come zanne di cinghiale”; abbiamo rappresentazioni del guerriero con la dentatura superiore in vista, all’atto di mordere il cranio di Melanippo sotto le mura di Tebe. L’attribuzione dell’Anfiarao ad Alcamene era stata raggiunta da Geórgios Dontás nel 1984, per analogia con l’Ermete Propylaios dello scultore ateniese, originario di Lemno: il Moreno ha esteso le affinità all’Eracle nelle metope del tempio di Zeus e ai Centauri del frontone occidentale, assegnato ad Alcamene da Pausania. Agelada II quale autore del Tideo si deduce dalla sua presenza dominante in Argo alla metà del quinto secolo, e dall’assoluta identità di struttura con l’Atlante di una metopa di Olimpia e con l’Oinomao del frontone orientale: da tempo si è dimostrato il carattere argivo di un Maestro di Olimpia, quale personalità affiancata ad Alcamene nel progetto figurativo. Moreno rileva che in uno dei donari dei Tarantini a Delfi, Agelada aveva accostato le quadrighe a figure femminili in peplo, come nel frontone orientale di Olimpia. Poiché la decorazione marmorea del tempio di Zeus si conclude al tempo stesso della battaglia di Oinoe, occasione per il gruppo bronzeo dei Sette, riesce evidente la continuità della collaborazione tra i due artefici nell’alleanza di Argo con Atene. Il Tideo diventa cardine tra lo stile severo e la piena classicità, in concomitanza con le notizie che fanno di Agelada il maestro di Mirone, Fidia e Policleto: non a caso, i nomi che altri studiosi avevano evocato a proposito del più inquietante eroe del Museo di Reggio. Tra le prevedibili conferme, la recente ricostruzione del Doriforo di Policleto con lo scudo imbracciato, ne fa l’effettivo erede del guerriero di Agelada.

La più recente ipotesi, formulata dal professor Daniele Castrizio di Reggio Calabria, appare assai interessante. Dagli studi effettuati sui segni lasciati dagli attributi mancanti sulle statue e dalle analisi dei documenti storici, l’archeologo in assunto ha elaborato un inedito pensiero sull’identificazione dei due Bronzi e dell’artefice. Egli ritiene di fatto che si possa trattare dell’originale del gruppo statuario di Eteocle e Polinice, opera di Pitagora di Reggio, scultore celebrato nell’antichità poiché:

«capace di rendere come nessun altro i riccioli di barba e capelli, e per fare “respirare” le statue, cioè rendere perfetta l’anatomia dei vasi sanguigni»
(Plinio il Vecchio, XXXIV 59)

Attribuzioni a parte, permane un collegiale quesito: perché furono rinvenuti nel mare di Riace? Logico epilogo di un naufragio o determinato occultamento? Un contributo alla soluzione, si spera, potrà imporsi attraverso l’approfondita ispezione dei fondali che hanno trattenuto, così a lungo, i due capolavori. I Riace chiedono, ormai energicamente, più interesse nella ricerca che nell’esibizione, fonte insidiosa di sterile feticismo.

                                                                                                    Giuseppe Braghò

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