Bivongi e i suoi antichi mestieri

Bivongi e i suoi antichi mestieri

di Mario Murdolo

L’altra sera, come d’incanto, mi è capitata per le mani una vecchia pubblicazione a cura del Comune e del Centro Anziani di Bivongi, che tratta in modo molto dettagliato e comprensivo la gloriosa storia dell’artigianato e degli antichi mestieri, allora molto diffusi, numerosi e variegati, ed oggi purtroppo quasi tutti scomparsi.
C’è da dire che, negli anni ’50, prima del terribile e continuo spopolamento dovuto all’emigrazione, le viuzze e le piazze di Bivongi, paese ad alta vocazione agricola e artigianale, brulicavano di numerose botteghe artigianali e manifatturiere, che oltre a rappresentare fonti di reddito e di ricchezza, erano sedi di importante apprendistato per i giovani che, nel doposcuola, frequentavano assiduamente la bottega del mastro.
Per non dire che rappresentavano anche luogo di accoglienza e di ritrovo per incontrare amici.
Prima di tutto, nel libro doverosamente si evidenzia l’importante figura del mastro, nella duplice veste di lavoratore e di istruttore dei numerosi discepoli. La moglie del mastro, caso curioso, anche se non aveva i titoli e requisiti del caso, veniva chiamata “majistra” o “maddamma”.
I discepoli, molto numerosi, che non riuscivano a essere contenuti nei non molto spaziosi locali, dovevano fare i turni e, a proposito di questo, il meccanico mastro Gimì, che tornato dall’America aveva allestito una spaziosa e comoda officina, deteneva il record di allievi che certe volte superavano anche le 20 unità.

La figura più caratteristica era quella del barbiere, che per arrotondare il lunario faceva anche il calzolaio. Uno degli ultimi è stato il mio amico barbiere, mastro Francesco Bombardieri, il quale lavorò fino a tarda età, tanto che, per carenza di suoi colleghi, si era meritato il titolo di barbiere dei giovani.
Tra i tanti aneddoti che mi raccontava mentre mi tagliava i capelli, ricordo quello che mi diceva che, nella maggior parte dei casi, i clienti, impossibilitati a pagare, ricorrevano al geniale utilizzo del baratto, compensando il suo lavoro con qualche giornata nei campi.
Non c’è spazio per indicare i moltissimi mestieri, e mi limito a citarne alcuni come il fabbro, il falegname, le tessitrici e ricamatrici, il carbonaio, il maniscalco, il cestaio, lo stagnino; e per gli altri, oltre a leggere le dettagliate descrizioni, vi invito a recarvi in biblioteca.
Concludo esprimendo tutta la mia gratitudine al sindaco del tempo, Ernesto Riggio, e alla dottoressa Lucia Murace, che con questa geniale e indovinata idea, li ha portati a realizzare un’opera veramente unica nel suo genere, istruttiva e rievocativa, che nel mio caso mi ha fatto ritornare agli anni della mia fanciullezza, quando anch’io, imitando i miei coetanei, andavo a “discipulu adu mastru”.
Invito tutti, specialmente i giovani, ad andare in biblioteca a leggere la storia gloriosa dei nostri avi e così riflettere che: si stava meglio quando si stava peggio.

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