Sinfonia per un Maestro Muto: A Caulonia, le “Brutte Intenzioni” di Morgan e l’Orgoglio di una Banda (prima parte)
Mentre 60 musicisti celebravano la storia, il nuovo direttore artistico del Kaulonia Tarantella Festival ha offerto uno spettacolo di assordante silenzio. Cronaca di uno sgarbo che infiamma il borgo e svela l’anima di una festa.
C’è un momento, nelle sere d’estate dei borghi del Sud, in cui il tempo sembra sospendersi. Un momento in cui il passato e il presente si fondono nel rito collettivo della piazza, nel suono condiviso che è memoria e identità. La sera del 13 agosto 2025, a Caulonia, questo momento si è sdoppiato, creando due realtà parallele, due musiche che, pur occupando lo stesso spazio fisico, si sono ignorate con la violenza dell’indifferenza.
Da una parte, in Piazza Mese, pulsava il cuore antico della comunità. Sessanta musicisti del “Complesso Bandistico Città di Caulonia” celebravano il loro 53esimo raduno. Non era un semplice concerto, ma una liturgia laica. Ottoni lucidati da generazioni, spartiti ingialliti che raccontano storie di padri e di figli, le “vecchie glorie” accanto ai giovani allievi. Era il suono di Caulonia che parlava a se stessa, una sinfonia di appartenenza che non ha bisogno di palcoscenici importati o di direttori artistici paracadutati dall’alto. Come ha poi ricordato un cittadino nel dibattito che ne è seguito, “La banda é l’identità della gente di Caulonia”. Era, in breve, l’anima del luogo resa manifesta in note.
Dall’altra parte, in quelle stesse vie, andava in scena un altro tipo di spettacolo: la processione del nuovo Messia culturale. Marco Castoldi, in arte Morgan, fresco di nomina a direttore artistico del Kaulonia Tarantella Festival, veniva condotto in avanscoperta per il paese.
L’inevitabile è accaduto. Mentre gli strumenti della banda riempivano l’aria di un’offerta sincera di cultura vissuta, il nuovo direttore artistico, colui che dovrebbe avere l’orecchio più sensibile di tutti, è passato oltre. Non un cenno, non un saluto, non un minuto di ascolto.
Non un atto di ostilità, che avrebbe almeno implicato un riconoscimento, ma qualcosa di infinitamente più offensivo: un assordante, cosmico silenzio. In quel momento si è consumata una forma di apartheid acustico. La musica della comunità, autentica e radicata, e l’Arte con la A maiuscola, incarnata dalla celebrità in transito, hanno occupato la stessa geografia ma hanno dimostrato di appartenere a universi culturali incomunicabili. Se il primo dovere di un direttore artistico di un festival popolare è ascoltare la voce del popolo che dovrebbe dirigere, quella sera, a Caulonia, si è assistito a una spettacolare abdicazione a questo dovere primario.
Ci sono offese che si consumano nel silenzio e ferite che sanguinano in pubblico. La linea di demarcazione, nell’era digitale, è un post su Facebook. A tracciarla, con una sintesi brutale e potentissima, è stato Paolo Suraci, componente del direttivo della banda. Poche ore dopo l’accaduto, la sua indignazione è esplosa sulla bacheca del social network, trasformando un malessere percepito in una pubblica accusa: “E comunque vedere Morgan in piazza Mese, ieri sera, non omaggiare la bellezza di 60 musicisti tutti del luogo, fa solamente schifo”.
L’efficacia di questo messaggio risiede nella sua disarmante semplicità, una vera e propria arma retorica nell’arena caotica del dibattito online. Suraci non si perde in analisi complesse o in giri di parole. Usa un linguaggio viscerale che colpisce dritto allo stomaco della comunità. Analizziamo la sua costruzione: “la bellezza di 60 musicisti” non è un dato numerico, è un giudizio di valore estetico e morale. Sottolinea la qualità, la dignità di quella performance. L’aggettivo “tutti del luogo” è il cuore politico del post: traccia una linea netta tra il “noi” (la comunità, l’autenticità locale) e il “lui” (l’estraneo, l’elemento importato). Infine, la conclusione: “fa solamente schifo”. Questa non è una critica, è una condanna etica. Eleva l’incidente da semplice gaffe o malinteso a una violazione fondamentale delle norme di decenza e rispetto. È un grido che non ammette sfumature, che costringe a prendere posizione.
Il fatto che a scrivere non sia un passante qualunque ma un membro del direttivo della banda conferisce a questa “percezione singola”, come qualcuno tenterà poi di ridimensionarla, un peso specifico enorme. Non è la protesta ufficiale di un’istituzione, ma è la voce autorevole di chi quell’istituzione la vive dall’interno. È la scintilla che ha incendiato la prateria digitale, dimostrando come, nei piccoli centri, la piazza virtuale di Facebook abbia ereditato la funzione dell’antica agorà. Un singolo post, carico di un’emozione autentica e di un senso di giustizia ferito, è bastato a mettere sotto processo l’artista, l’amministrazione che lo ha scelto e, in definitiva, l’idea stessa del festival.
(continua…)