Sinfonia per un Maestro Muto: A Caulonia, le “Brutte Intenzioni” di Morgan e l’Orgoglio di una Banda (seconda parte)
Prosegue dalla prima parte:
Il post di Suraci ha agito come un reagente chimico, facendo emergere le fratture e le tensioni latenti all’interno della comunità di Caulonia. Il thread dei commenti è diventato un referendum istantaneo sull’identità culturale, sul rispetto e sul culto della celebrità. Leggerlo è come assistere a una radiografia sociologica in tempo reale, dove si delineano fazioni nette e inconciliabili.
Approfondendo queste posizioni, si scopre una vera e propria guerra per la definizione del “valore” culturale. Da un lato, i “Guardiani della Tradizione”, la cui voce più eloquente è quella di N. P. Egli non parla solo di maleducazione, ma la collega a un deficit di visione: la mancanza di “dialogo e il confronto come principio di base” impedisce la creazione di un “festival di qualità”. La sua citazione colta e velenosa delle “brutte intenzioni” di Morgan chiude il cerchio con un’ironia tagliente.
All’estremo opposto si colloca “La Voce del Popolo”, incarnata perfettamente in modo sarcastico dal commento di F. C.: “L’artista è lui caro Paolo Suraci!!! Erano i 60 musicisti che dovevano omaggiarlo!!!!”.
Nel mezzo, “Il Corpo Diplomatico” tenta di gettare acqua sul fuoco. L.F. prova a declassare l’accaduto a “una tua singola percezione”, suggerendo di chiudere l’incidente. È un tentativo di disinnescare la polemica, ma viene prontamente smontato dalla logica affilata di M. B., la quale sottolinea che la legittimità di una percezione individuale non viene meno solo perché non è una “nota ufficiale”.
Ma è forse la fazione dei “Critici Filosofici” a cogliere il punto più profondo. Michela Fuda, in un lungo e ragionato intervento, allarga il campo visivo. L’incidente, per lei, è solo il sintomo di una malattia più grave: la snaturazione del festival. Si chiede come si possa conciliare la ricerca di “nomi altisonanti” e “formalismi” con l’essenza della tarantella come musica popolare, il cui scopo ultimo era far “ballare la piazza”. La sua è una critica radicale al modello stesso di festival che si sta imponendo.
In questo dibattito emerge anche il paradosso dell’empatia. L. F. definisce Morgan “notoriamente un artista empatico”, un’affermazione che stride violentemente con i fatti descritti. Questo svela un meccanismo tipico della cultura della celebrità: l’immagine pubblica, il “brand” dell’artista, viene usato come uno scudo per negare la realtà di un’azione concreta. Si fa appello a un’empatia astratta e di repertorio per cancellare un’istanza reale e documentata della sua assenza. Per la comunità, questo è il momento in cui il velo si squarcia e il prodotto non corrisponde più alla sua etichetta promozionale.
Quando la polemica ha raggiunto il punto di ebollizione, è intervenuto il management dell’artista, nella persona di D. S., con l’intento di “mettere una pezza”. Il risultato è stato un capolavoro involontario di arroganza e goffaggine, una toppa che ha allargato il buco a dismisura, offrendo una lezione magistrale su come trasformare un problema in un disastro.
L’esordio del suo commento è già un manifesto: “se vogliamo scrivere cose su fb tanto per scriverle va bene…”. È la classica mossa di chi, dall’alto della propria posizione, declassa la critica a chiacchiericcio irrilevante. Ma il cuore della sua difesa è un grottesco capolavoro di logica burocratica: “non ho mai ricevuto una richiesta o invito da parte della banda di Caulonia per essere omaggiata”. Questa frase meriterebbe di essere incisa nel marmo all’ingresso di ogni scuola di management culturale come esempio da non seguire. Un gesto di spontaneo rispetto umano, di curiosità artistica, viene ridotto a una transazione formale. La cortesia, secondo questa visione, non è un dovere etico ma una prestazione da erogare solo previa richiesta scritta. La banda non è un’istituzione culturale da onorare, ma un fornitore che non ha compilato il modulo corretto.
D. S. prosegue sostenendo che Morgan si è comportato da “persona normale”. L’ironia è tragica: una persona normale, dotata di un minimo di sensibilità musicale, si sarebbe fermata, avrebbe ascoltato, avrebbe applaudito. Definire “normale” quell’indifferenza significa ammettere una norma comportamentale aliena a qualsiasi contesto di socialità e rispetto.
Ma il colpo di grazia arriva alla fine, con una proposta che suona come un insulto mascherato da offerta di pace: “Se imparate un pezzo di Morgan possiamo pure organizzare un omaggio alla banda di Caulonia”. La magnanimità del Maestro è condizionata. L’onere della riconciliazione viene ribaltato. Non è l’artista che ha mancato di rispetto a dover fare un passo verso la comunità, ma è la comunità, rappresentata da una banda con decenni di storia, a dover studiare e rendere omaggio al repertorio del nuovo arrivato per meritarsi la sua attenzione.
È la logica coloniale applicata alla cultura: il locale deve imparare la lingua del conquistatore per essere degno di un dialogo. È un atto di potere che svela una mentalità manageriale per la quale la cultura non è un ecosistema da coltivare, ma un asset da gestire, dove gli stakeholder locali devono adeguarsi alle esigenze del prodotto di punta.
(continua…)