Venti. Più venti.

Venti. Più venti.

Mi pagavano per custodire un fuoco. Tu pagavi qualcuno per spegnerlo.

Il problema della tenuta della fiamma non era mai davvero esistito fin quando l’irrigidirsi dei rapporti umani aveva innalzato muri attraverso i quali gli spifferi avrebbero soffiato forte. E sempre più forte si sarebbero incanalati dentro i corridoi artificiali che io provavo ad abbattere. Un martello e tanta ferocia. Tanta ferocia e la testa rasata. La testa rasata e le braccia robuste di chi ha posto un limite alla filosofia fin tanto che le risposte se le sarebbe ritrovate sul corpo. Il corpo era sotto attacco ed il corpo si sarebbe difeso. La fiamma alta lo alimenta ancora ed ancora una volta l’abbraccio del fuoco gli avrebbe permesso di mantenere la convinzione che ce l’avremmo fatta. Ce l’avremmo fatta.

Il pomeriggio della tempesta di grandine un popolo neoliberista aveva deciso di lanciare la sfida. Bisbigliavano tra loro della strategia che li avrebbe portati a spegnere il mio unico pensiero. La minaccia sul fuoco partiva dal presupposto che l’unione avrebbe fatto la forza. Non era la prima volta che mi capitava di affrontare un popolo. Non era nemmeno la prima volta che mi capitava di affrontare una convinzione. Non sarebbe stata l’ultima. Le mura del popolo si ergevano a protezione della corrente mentre io le colpivo al centro. Lontano all’impeto del tutto e subito, e lontano dalla strategia bisbigliata alle orecchie del popolo, sapevo che la dispersione del soffio tra i corridoi avrebbe prima di tutto alleggerito la forza. Un punto a favore della meta alla quale puntavano. Minavo le convinzioni con fermi colpi, ben piazzati. La testa del mio martello si abbatteva al centro delle mura che, sorrette dalla scorrettezza di una tattica mal compresa, cadevano in macerie ai miei piedi alati. Dispersi tra gli spifferi, i capopopolo rigurgitavano formule vincenti nelle orecchie dei più. Un popolo che, unito, non sarebbe mai stato sconfitto. Il popolo che avrebbe lottato fino alla morte benché perfettamente cosciente della propria inadeguatezza alla vittoria. Bisogna saper vincere. Bisogna voler vincere. Bisogna convivere con la coincidenza delle sensibilità del corpo sul quale il riflesso della realtà brillava di un nero abbagliante. Abbattei quella minaccia piazzando 8 colpi precisi. Un labirintico biliardo che visto da dentro avrebbe esaltato ogni giocatore. Ma giocavo solo io, mentre i capopopolo intimavano a chi applaudiva di riprendere a soffiare. Pena la morte.
Piena è la corte se gli serve qualcosa. Trema la sorte sotto i miei colpi. Avremmo vinto noi. Avrei vinto io.
Alle orecchie del popolo solo il rimbombare del crollo. Un boato bollato come esperienza necessaria a riprovarci “partendo dagli errori commessi che questa sconfitta ci ha spiegato e che serviranno per il conseguimento del nostro obiettivo”. Il popolo ci avrebbe creduto anche stavolta. Il popolo avrebbe perso ancora.
Dinanzi al fuoco alto mi spogliai. Tuffandomi tra le fiamme tutte le ferite riportate in battaglia si sarebbero rimarginate. Il corpo avrebbe risposto al corpo. La filosofia sarebbe tornata in auge sol quando l’uomo avrebbe smesso di ergere muri e corridoi e limiti. Le forze della filosofia si sarebbero fatte largo su nuovi territori. Ecco cosa: la vista del mondo a perdita d’occhio.
Che brucino gli occhi dalla gioia. Che gioiscano le fiamme. Che si infiammino i campi, le case e i palazzi.

Mi pagavano per custodire un fuoco. Tu pagavi qualcuno per spegnerlo.

Io alimenterò il fuoco con le ricchezze accumulate. Tu quanto credito credi di avere?

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