
Dalla Locride un esempio di coraggio: la memoria del Brigadiere Antonino Marino, vittima della ’ndrangheta
di Cosimo Sframeli
PREMESSA
I calabresi, prima degli altri che vivono altrove, sono le principali vittime della ‘ndrangheta e dello strapotere mafioso. Grazie ad Alfonso Picone Chiodo e a tutti coloro che contribuiscono a custodire le bellezze di questa terra e credono nella rinascita. Uomini e donne che quotidianamente subiscono e, a viso aperto, affrontano e contrastano la ’ndrangheta e il malaffare.
In Aspromonte non c’è più la paura esasperata creata ad arte, i rapporti della gente sono stati sempre basati per ricercare il bene comune, in uguaglianza e fraternità. La montagna è stata di tutti, come lo è la dove abitiamo, la casa che abbiamo costruito per noi e per i figli, i luoghi dove pensiamo di incontrare Dio.
Sono gli eroi, dei quali conosciamo la coerenza, il sacrificio, la moralità, il silenzio, ad avere lastricato la strada che agevolmente oggi noi percorriamo, senza più disperare della meta.
La certezza della verità è sempre un’esigenza morale ed è un’urgenza sociale indifferibile. In Calabria c’è stata incertezza e sfiducia nella esasperata convinzione che la legge del più forte fosse quella vincente, anche sulla giustizia dei tribunali. Le vittime calabresi, oltre che del suo aguzzino, sono state prede della violenza delle carte e delle scartoffie. Quando la verità giudiziaria si è sostituita a quella dei fatti, alleandosi con la becera e colpevole pseudo verità televisiva o della carta stampata, che ha inquinato prove e buon senso, ha favorito i fortunati e quelli che hanno potuto permettersi gli avvocati più bravi. “La verità ha mille facce ed è mutevole come le persone” dice Kafka. Per noi la verità è stata una e abbiamo creduto che risolvere i gialli fosse servito a individuare il colpevole, ma soprattutto a liberare l’innocente da sospetto.
Per non essere destinati a perdere, narriamo e ricordiamo perché il silenzio non chiuda per sempre la bocca dei vivi e dei morti, né la testimonianza delle vittime di ogni tipo di violenza, mafiosa e non. Dove non arriva la giustizia arrivi la memoria, più forte della polvere e delle complicità. Tutto ciò che finisce è impiegato per ricominciare.
BRIGADIERE ANTONINO MARINO CALABRESE DI SAN LORENZO
La ‘ndrangheta diveniva eversiva, aggrediva lo Stato ed alcuni dei suoi simboli. In quegli avvenimenti cruciali e sanguinosi, Carmine Tripodi e Nino Marino, così come altri, si giocarono tutto. Con generosità, diedero la loro vita e lo fecero per qualcosa di più grande che rese spazioso il loro cuore. Si donarono. Così che in quell’azione del servire ebbero il privilegio di morire. L’attacco destabilizzante si dirigeva verso i Carabinieri e l’urto mafioso travolgeva le ultime barricate erette dalla gente perbene. “L’omicidio del Brigadiere Antonino Marino è un atto eversivo”, affermava categorico il sostituto Procuratore della Repubblica Ezio Arcadi che conduceva le indagini, “siamo fuori dai confini di un normale delitto di mafia”. Era la grande mafia, quella che era scesa in campo. La mafia degli affari della droga, la mafia dei sequestri di persona. Quando l’economia criminale venne intaccata, la ’ndrangheta reagì in maniera selvaggia. Uccideva in maniera esemplare, con intento pedagogico, per bloccare chiunque volesse avventurarsi sui sentieri inesplorati degli arricchimenti illeciti dell’Anonima sequestri. Fu questa la pista seguita per l’assassinio del Brigadiere dei Carabinieri Antonio Marino di 33 anni, per il ferimento della moglie, al terzo mese di gravidanza, Rosetta Vittoria Dama di 30 anni, e del figlioletto Francesco di appena 2 anni. Il Brigadiere, calabrese di San Lorenzo, comandante di Stazione, un investigatore coscienzioso e diligente, fu punito perché di ostacolo ai disegni dell’Anonima. L’ordine di uccidere sarebbe partito da Platì, paese alle pendici dell’Aspromonte, dove il Brigadiere Marino aveva ricoperto l’incarico di comandante della Caserma dei Carabinieri (1983-1988). Fu sparato da un giovane la notte di domenica 9 settembre 1990, all’una meno un quarto. Libero dal servizio, si trovava dai suoceri a Bovalino Superiore, quattro case e pochi abitanti in un antico borgo-castello, per i festeggiamenti in onore dell’Immacolata. Era seduto fuori il locale gestito dai parenti, per l’occasione adibito a “Stand Gastronomico”, intento a guardare i fuochi d’artificio, che si aprivano ad ombrello su migliaia di persone, quando un giovane si avvicinò tra la folla e, da distanza ravvicinata, gli esplose contro numerosi colpi di pistola calibro 9. Sei proiettili colpivano il sottufficiale, due la moglie che si trovava nella traiettoria di tiro e uno di questi ultimi, di striscio, feriva ad una gamba anche il figlio Francesco che si trovava nel passeggino, accanto al padre. Il killer, con l’arma in pugno, si allontanava a piedi accompagnato da un altro giovane che era rimasto nella Piazza. Marino gravemente ferito, unitamente alla moglie ed al figlioletto, venne trasportato all’Ospedale di Locri. Nino, alle ore 13.00 successive, e dopo un delicato quanto inutile intervento chirurgico, spirava. Da due anni aveva lasciato Platì, quando si sposò con Vittoria. A quel tempo era il regolamento ad imporlo e fu trasferito a San Ferdinando di Rosarno, un paese nella Piana di Gioia Tauro. Nella Locride era ritornato per servizio, perché considerato “conoscitore d’area, di persone e di luoghi”, in occasione del sequestro di Cesare Casella (18/1/1988 – 30/1/1990), fornendo un notevole contributo per la sua liberazione. Nell’anno 1985, il Brigadiere Marino, durante un servizio d’istituto, svolto insieme a personale del Corpo Forestale dello Stato, in località Cirella di Platì, veniva fatto segno da numerosi colpi d’arma da fuoco esplosi dalle armi di tre sconosciuti, probabilmente latitanti. L’intento fallì per motivi del tutto occasionali. Ed ancora, nel 1986, in località Giovambattista di Platì, sconosciuti esplodevano due colpi di fucile caricato a pallettoni all’indirizzo della campagnola del Comando Stazione Carabinieri di Platì, con a bordo tre militari in servizio di perlustrazione che rimanevano illesi. Durante il 1987, sui muri e sulle serrande di alcuni esercizi pubblici di Platì, comparvero frasi ingiuriose e minatorie nei confronti del Brigadiere Antonino Marino e del Vicebrigadiere Orazio Di Martino. Antonio Zagari, mafioso originario di San Ferdinando di Rosarno, quando divenne collaboratore di giustizia, raccontò al Pubblico Ministero di Milano, Armando Spataro, di alcuni sequestri consumati dalla ’ndrangheta in Lombardia che si conclusero con la morte dell’ostaggio. Emanuele Riboli, rapito a Baguggiate (Varese) il 14 ottobre 1974; Cristina Mazzotti, sequestrata ad Eupilio (Como) il 10 luglio 1975 e trovata cadavere due mesi dopo in una discarica di Galliate (Novara); Giovanni Stucchi, rapito ad Olginate (Como) il 15 ottobre 1975. Prima di iniziare la sua collaborazione, Zagari aveva informato i Carabinieri di un piano progettato dagli uomini della ’ndrangheta per sequestrare Antonella Dellea. Il proposito fu attuato a Germinara (Varese) il 16 gennaio 1990. Ma quella sera si ritrovarono lì pure i militari dell’Arma da lui attivati. Nel tentativo di rapire l’ostaggio, trovarono la morte i quattro sequestratori, tre di San Luca ed uno di Natile di Careri. Nella nuova sede, a San Ferdinando di Rosarno, Marino non aveva avuto per le mani inchieste delicate. Il cerchio si stringeva quindi nella Locride. Era impensabile che si potesse commettere un omicidio così plateale senza una regia locale. La ’ndrangheta aveva sparato a morte nella ricorrenza della festa patronale, come a Monreale il 4 maggio del 1980 quando fu ucciso il Capitano Emanuele Basile, che era in compagnia della moglie e la figlia di cinque anni in braccio. Era la festa del Crocefisso. Per Marino, nel tutto il circondario della Locride fu uno shock enorme. Il crescendo di terrore mise in forse il diritto alla sicurezza e l’esercizio delle libertà democratiche. “Stiamo vagliando tutte le ipotesi, ma al centro delle indagini c’è ovviamente l’attività investigativa di Marino e i suoi quattro anni passati a Platì. Le attenzioni vengono circoscritte a Platì. È la realtà che offre questa ipotesi”. Ribadiva il P.M. Arcadi. “Non emergono per ora altre piste, non abbiamo altre motivazioni al delitto. Per noi Marino è stato ucciso per causa di servizio. D’altra parte un omicidio così deve avere un movente serio”. Marino aveva indagato su tantissimi sequestri di persona ed aveva collaborato ad inchiodare i boss dell’Anonima di Platì. In cinque anni di permanenza nel centro jonico aveva imparato a conoscere la gente, ad accorgersi subito di fortune accumulate in breve tempo. Le sue relazioni erano state redatte nel periodo dei maggiori arricchimenti illeciti. Marino non serbava alcun timore. Il 10 agosto, giorno di San Lorenzo, era stato nel suo paese natio e casa dei suoi genitori, dei suoi parenti. La sera, insieme a Vittoria e Francesco, l’aveva trascorsa con Cosimo e Mirella, a ricordare i tempi trascorsi e a parlare del futuro, assistendo al concerto di Franco Simone che, per i festeggiamenti del santo patrono, si esibiva nella piazza principale del paese, proprio di fronte alla Caserma dei Carabinieri. A Bovalino Superiore, in ferie fino al 23 agosto, aveva lasciato moglie e figlio. Sabato 8 settembre, era tornato per i festeggiamenti dell’Immacolata. Ma il suo destino era stato deciso da altri. Il sicario lo aveva colpito in maniera implacabile. Qualcuno, con macabra ironia, su un manifesto lì affisso in cui vi era il programma dei festeggiamenti, dopo il delitto, aveva scritto: “Ore 24: omicidio di un brigadiere”. A Bovalino Superiore si tennero i funerali, presente il Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri, Antonio Viesti. Li pretese la moglie, ancora ricoverata in ortopedia per le ferite d’arma da fuoco alla gamba ed arrivata in Chiesa sopra una barella, sconsigliano i funerali che l’Arma avrebbe voluto celebrare nella Cattedrale di Locri. Il Brigadiere Antonino Marino fu decorato della Medaglia d’Oro al Valor Civile con la seguente motivazione: “Comandante di Stazione impegnato in delicate attività investigative in aree caratterizzate da alta incidenza del fenomeno mafioso, operava con eccezionale perizia, sereno sprezzo del pericolo e incondizionata dedizione fornendo determinanti contributi fino al supremo sacrificio della vita stroncata da vile agguato. Splendido esempio di elette virtù civiche e di altissimo senso del dovere. Bovalino (RC), 09 settembre 1990”.
Nel 2005, l’avvio di una nuova inchiesta, originata dalle dichiarazioni di un pentito e condotta dal S. Procuratore generale Fulvio Rizzo, ha permesso di ricondurre il movente dell’omicidio alle attività investigative svolte dal sottufficiale nel territorio di Platì. Nel 2014, con sentenza definitiva, la Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria ha condannato i mandanti e gli esecutori dell’afferrato delitto contro il militare dell’Arma dei Carabinieri.