Francesco Tuccio racconta la presentazione di “Vado via”

Francesco Tuccio racconta la presentazione di “Vado via”

di Francesco Tuccio

vado via caulonia 1

A Giovanni Maiolo ben si addice la narrativa del viaggio, del quale ne ha fatto una delle ragioni di vita. Viaggiare e scrivere. Taccuino e matita, computer e telefonino, una connessione alla rete, e poi aeroporti e stazioni deserti e affollati, treni e autobus tra compagni di viaggio occasionali e provvisori, locali dai nomi diversi in cui la gente la sera si perde come in un rifugio, stanze di ostelli che offrono incontri ignoti e imprevedibili, case confortevoli del couch surfer dove si ritrova il calore familiare nelle persone appena conosciute, in faccia alle visioni della natura e dei luoghi della storia, delle città e dei paesi formano tanti micro racconti che si annidano e volano nelle righe di un diario. Da qui il passo è breve per dipanare la matassa temporale e condensare tutto in un libro ricco di emozioni coinvolgenti.
Lo si è capito bene nella riuscita presentazione di “Vado via Now I walk” avvenuta ieri presso la Biblioteca Comunale di Caulonia marina; presenti il vice sindaco Dott. Francesco Cagliuso, l’Avvocatessa Caterina Belcastro, assessore comunale, l’attenta moderatrice giornalista Barbara Panetta, la giornalista Angela Cristofaro che ha curato la lettura e fatto rivivere alcuni brani, e ,naturalmente, l’autore, Giovanni Maiolo, e tanto pubblico.
“Il cielo si è coperto. Avrà freddo anche lui.” E’ l’incipit del prologo di “Vado via”. Due frasi brevissime, essenziali, sonore; due pronomi, il primo riflessivo e l’altro personale compiono la metamorfosi: gli elementi naturali divengono persona e svelano il rapporto simbiotico con chi scrive. Il viaggio è attraversare l’intimo e farsi attraversare nell’intimo. E’ andare dentro e oltre la realtà che si para davanti agli occhi, le parole che si dicono e si sentono, e tutto lascia un segno indelebile nel rinsaldare, mutare e formare un pentagramma sensoriale consapevole che si arricchisce e si rigenera. Questa è, a mio parere, la chiave, l’atmosfera magica che prende per mano il lettore e lo conduce nel suo viaggio, un viaggio personale parallelo e intrecciato che desta le sensibilità diverse di ognuno.
“E’ bellissimo sorprendere due piccoli cervi dietro una curva e restare ad ammirarli mentre con calma si allontanano. Ma ancora più incredibile è, dopo tre ore di marcia, incrociare un’intera famiglia di cervi, madre, padre e tre piccoli. Anche loro si allontanano senza fretta e si concedono allo sguardo. Impagabile.” La visione è idilliaca, un calore pulsa nelle vene e scaccia il freddo gelido dei Carpazi e la spossatezza, ma improvviso e inaspettato arriva il colpo d’ascia che la spezza. “Fossimo stati dei cacciatori avremmo avuto tutto il tempo per farli secchi”. Si introduce una considerazione flash senza ulteriori sviluppi e lascia lo sconcerto, un non detto che fa riflettere, il pezzo forte dei racconti e dei romanzi di qualità. Com’è possibile distruggere tanta bellezza naturale che è fuori e dentro di noi? E’ come distruggere una parte vitale di noi stessi. E la simbiosi diviene empatia, immedesimazione, identità che toccano i picchi più alti e assoluti di fronte alla inumanità più atroce, nel luogo eletto a perenne simbolo della storia degli stermini dell’uomo. Da come è descritta la visita ad Auschwitz si capisce che non vi è il compimento di un dovere morale e civile, un presa di distanza netta, il rifiuto sdegnato della belluina follia nazista, una espressione commossa di solidarietà alle vittime. Giovanni Maiolo non lo compie dopo quasi 70 anni, è lì inerme tra i deportati, uomini, donne, bambini a cui hanno rubato il nome e la dignità per farne un numero impresso a fuoco e un corpo scheletrito; è lì mentre le crudeltà e i martiri avvengono; è tra i sottoposti agli esperimenti più malvagi e impietosi; tra le donne a cui hanno tagliati i capelli; tra coloro che stanno per entrare nelle camere a gas; sente l’odore della carne viva che brucia. Scorre un fluire tragico di immagini come vissute nell’umiliazione, nella ripulsa e nell’orrore; sono insopportabili, soffocanti, che non lasciano scampo; quel posto è un incubo da cui fuggire portandosi dentro tutto il dolore del mondo, una indignazione gonfia a dismisura come l’odio verso la guerra, gli eserciti e il potere aberranti.
Questi tratti estrapolati vogliono chiarire l’approccio, il senso di pagine diversamente dense che provengono dalla Polonia, dall’Ucraina, da Malta, dalla Lettonia e dalla Lituania, e lasciano nello sfondo una speranza. Il mondo globalizzato è stata una invenzione del capitale finanziario che per moltiplicarsi ha avuto bisogno di libertà e rapidità di migrazione. Quella migrazione impedita alle persone che non valgono nulla e, perciò, sono condannate a morire nelle prigioni invivibili e invisibili. Ha creato interdipendenze sciagurate. Il fallimento di due o tre banche Usa ha mandato giù mezzo mondo, ha ristretto le condizioni di vita e ha smisurata la povertà. Ma nella rete globale non tutto è negativo. Ha cambiato la nostra posizione da spettatori in attori di una nuova cultura dell’ospitalità e dell’incontro tra nazionalità e popoli diversi. Il couch surfer crea il contatto gratuito tra domanda e offerta di ospitalità, guida la permanenza in una località, rende più accessibile e interessante il viaggio, instaura scambi minuti e diffusi di una cultura conviviale, quella che unifica le divisioni e supera gli steccati laceranti, preludendo ad una nuova civiltà del mondo. Il couch surfer riguarda la terra, ma è già pronto quello del mare che si chiama barcastop. Sicuramente rileggeremo pagine salmastre di acque, isole e coste negli scenari di albe e tramonti marini.

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