Caulonia: I vecchietti di piazza della Pace

Caulonia: I vecchietti di piazza della Pace

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Ho osservato per anni quei vecchietti di piazza della Pace. Sedevano sulle panchine nelle belle giornate di ogni stagione, portavano con loro il grumo di un vissuto, e lentamente lo dipanavano per raccontare e raccontarsi, ed allontanare le infermità e la solitudine. Spuntavano dalle palazzine come le lucertole per crogiolarsi al sole tiepido d’inverno e cercavano ansimando l’ombra nella canicola estiva. L’alluvione ricorrente e disastrosa del 1951 li ha sradicati dai loro mondo arcano, fatto di credenze e saggezze ancestrali, di lembi di terra collinare e montana per riunirli nella torre di babele che divenne l’altro mondo della marina, dove i carri trainati dai buoi già giacevano immoti, e il treno sbuffava accigliato tra ciuffi di canneti, gelsi e gelsomini, e, di tanto in tanto, sulla statale vi scorrevano frettolosi i camion, le corriere e le automobili, mentre fiorivano i commerci degli agrumi, il nostro sole incontrava genti e luoghi lontani e stranieri. Qui conobbero l’aria salmastra e la modernità delle cose estranee e inimmaginate, ma non mutarono la loro vita, le loro radici ben piantate nelle asprezze e nelle bellezze degli scenari naturali nativi.

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Non ebbero l’età per fare l’ultima guerra, ma della guerra avevano vissuto a piedi scalzati tutte le miserie e la fame. Uomini solari, di fiumara, di terra e di luna, non conoscevano il mare. Del mare avevano sentito raccontare storie e leggende di incursioni piratesche, di ratti di donne e bambini, di razzie di uomini e animali dei secoli passati, e avevano perso la memoria dell’antica civiltà che ci giunse sospinta dalle ali delle vele quadre. Non erano “eterni poppanti di mandria”, ma zappatori della terra, dei giardini di zagare e aranci delle sponde dell’Allaro e dell’Amusa, della piana d’Aguglia, delle pendici delle colline nei filari delle vigne, negli orti gracidanti, umidi e ombrosi, che curavano con la gelosia di un amore segreto. Seminavano il grano e mietevano le spighe, abbacchiavano e raccoglievano le olive, vendemmiavano nell’aria indorata e matura dell’autunno. Seguivano gli influssi della luna che scandiva le loro fatiche dall’alba al tramonto. Erano gli eterni abitatori sovrani dei mulini ad acqua, dei trappeti e dei palmenti. S’annunciavano con i brividi dello stridore di suole chiodate e zoccoli ferrati sui selci e per i viottoli pietrosi, appesi sui botri, le falesie, le creste e i crinali che ne stagliavano le sagome di uomini e cavalcature in cammino negli spazi di valli infinite; conducevano la pariglia dei buoi e il vomere affondati nei solchi di maggese, fumanti vapori di pane. Conservavano un ricordo vivo, ancora graffiante dell’odiata gabella. Il retaggio feudale che impinguava i ricchi signori e rubava il frutto del loro duro lavoro. La ricordavano come le male annate di gelo e di vento, di grandine, di siccità e delle cataratte alluvionali, quando le speranze si scioglievano nelle imprecazioni per la malasorte, il destino secolare che li teneva prigionieri indomiti. Dell’allegria ricordavano il rito cruento del maiale. Il sacrificio all’agognata prosperità per rinnovare le relazioni parentali, comparali e amicali: la cultura contadina, ricca della solidarietà suggellata dalla condivisione dei frutti della terra.
Mostravano orgogliosi le loro mani scarne e ossute, venose, deformi, ancora callose e segnate dai rovi. Nei loro corpi erano aperte e sanguinanti le ferite delle zappe, delle accette, delle roncole. I segni indelebili della storia dissolta di un popolo e della loro storia.
Erano padri solitari di famiglie numerose con i figli dispersi nei continenti del mondo, accompagnati dall’incessante pianto delle madri.
D’estate il gruppo si rinfoltiva. Tornavano gli emigrati, i compagni di mille fatiche, e I racconti si arricchivano, si dilatavano ai cantieri edili e alle fabbriche del Nord, alle campagne e alle città dei paesi oltre confine, oltre gli oceani. Storie lontane di un’altra vita che si riunivano spesso intorno al vino e il pensiero volava allegro, leggero ai giorni di San Martino, alle cantine del paese, alle bevute ai piedi degli alberi e sulle aie dei casolari, seduti sulle pietre di fronte al bagliore della terra.
Di anno in anno qualcuno ha dovuto abbandonare il gruppo che si è ripresentato con gli occhi pieni di mestizia, con un ricordo in più da ricordare.

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Stasera la luna si è affacciata su piazza della Pace e, sgomenta, non ha ritrovato il suo ultimo vecchietto. Stasera, è sceso il silenzio su piazza della Pace.

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