Perchè la Chiesa vuole controllare le feste patronali

Perchè la Chiesa vuole controllare le feste patronali

Più volte, soprattutto con riferimento a quella di San Rocco a Gioiosa Jonica, abbiamo discusso e polemizzato sull’atteggiamento della Chiesa verso le feste patronali.

Ci piace assai poco, a noi che – pur senza alcun complesso di subalternità – abbiamo comunque scarsa dimestichezza con le cose di fede, l’ansia di controllare, vincolare e delimitare le espressioni della tradizione storica e dell’identità popolare, le stesse che hanno reso così grandi ed importanti molte delle feste che si celebrano nel nostro territorio.

San Rocco evidenza

Che sia il ballo votivo di San Rocco a Gioiosa o i fuochi imponenti per la Madonna di Pugliano a Bianco oppure ancora il folklore originalissimo dei rom e dei sinti per San Cosimo e Damiano a Riace, la Chiesa-Istituzione rivendica ossessivamente il diritto-dovere di intervenire e di stabilire una sorta di canone fondamentale cui attenersi.

La tensione sembra quasi essere volutamente ricercata: sempre più numerosi sono i comitati organizzatori o le amministrazioni comunali (ultima quella di Riace) impegnati in un “corpo a corpo” con la sede vescovile per tutelare l’antropologìa umana e sociale delle proprie feste, l’identità intima di piccole comunità che nelle celebrazioni per i propri santi patroni ritrovano le radici della propria storia e le ragioni simboliche dello stare insieme.

La spiegazione ufficiale, se così può essere definita, è quella classica, la stessa che abbiamo imparato ad ascoltare sin da bambini: la parola di Dio – e lo diciamo con il massimo dell’umiltà e con il massimo del rispetto – che non deve essere mischiata con fenomeni di folklore deteriore e sovrastrutturale, la ricerca di spiritualità e di divino che nulla ha a che fare con epifenomeni assolutamente accessori rispetto all’importanza suprema del momento religioso.

Ma a noi, che siamo maliziosi e tendenziosi per convinzione, la spiegazione ufficiale non ha mai convinto.

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Il ballo dei rom a Riace

La ragione ultima, in realtà, è di carattere eminentemente politico-culturale: la Chiesa-Istituzione ha un bisogno evidente di esercitare il proprio potere, di perpetuare – per le feste di origine religiosa, e non solo – un ruolo di decisore di ultima istanza che è ormai compromesso dal divenire del tempo e dalle contaminazioni popolari. Non riuscendo più a comprendere – o, forse, riuscendovi meglio di chiunque altro – che le feste religiose non appartengono da tempo alla sola Chiesa, essendo divenute di fatto patrimonio antropologico e culturale di tutti.

Qui vi è lo scontro fra mondi simbolico-culturali e parole d’ordine che sono difficilmente conciliabili: da una parte, il potere ecclesiastico, che decide di manifestarsi anche e soprattutto nelle feste popolari che punteggiano il territorio, con l’obiettivo di mantenere una presa stringente sugli abiti mentali e sociali di una piccola comunità; dall’altra, una società fatta di mille frammenti e in continua evoluzione, che vede nelle feste dei santi patroni una manifestazione di unitarietà e di identità che prescinde il dato meramente religioso.

La vicenda della raccolta delle offerte, su cui anche la nostra perfida “carcarazza” ha avuto modo di esprimersi qualche giorno fa (leggi QUI), ci aiuta ancor di più a comprendere: i soldi si possono raccogliere in chiesa (che rimane, in qualche modo, un luogo riservato alla volontà privata e alla singola disponibilità di ognuno), i soldi non si possono raccogliere durante le processioni o in momenti similari (che appaiono, invece, come momenti di assoluta pubblicità, aperti anche a chi in chiesa non ama andare). Quasi a voler suggellare, su una questione così decisiva come quella delle risorse economiche, il potere ultimo della Chiesa-Istituzione: decidiamo noi come e quando raccogliere le offerte, perchè vi è un denaro che merita di essere accolto e un altro che deve essere limitato, ben sapendo che il “come” e il “quando” della raccolta determinano puntualmente anche l’evolversi delle feste (oltre a controllare letteralmente i comportamenti delle persone).

Il Vescovo Francesco Oliva

Il Vescovo Francesco Oliva

Concludiamo. E’ evidente che la nostra posizione è viziata da un limite di fondo, ovvero un’identità orgogliosamente e ostinatamente laica. Abbiamo una tensione radicale verso la libertà delle persone, contro ogni forma di gerarchia e di controllo, a partire dalla nostra identità di cittadini, di popolo, di fedeli. Nutriamo, al tempo stesso, anche un rispetto estremo per il fenomeno religioso, visto nella sue numerose e sovrapposte sfaccettature e considerato come parte costitutiva della nostra umanità: per questo, ci permettiamo di criticare una Chiesa-Potere che si auto-impone, che si staglia su una posizione di sovranità difficilmente discutibile, non riuscendo ad aprirsi alla società e al futuro per come sarebbe auspicabile.

Noi difendiamo le nostre feste patronali – con tutto il loro corredo di “usi e costumi” e di relative contraddizioni – perchè vogliamo esaltare, fino in fondo e fino all’ultimo, la nostra libertà. Sono fenomeni processuali ed eventi cadenzati che – magari anche e solo per una piccola quota parte – danno un senso ai nostri luoghi, al nostro tempo, al nostro modo di essere: fondamentale, quindi, che esistano e che siano implementati in modo libero ed autonomo.

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