Reportage dalla Turchia del Direttore di Ciavula

Reportage dalla Turchia del Direttore di Ciavula

Istanbul, tra normalità e militarizzazione

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Atterro ad Istanbul intorno alle due di notte e alla dogana il poliziotto decide che quello fotografato sul mio passaporto non sono io.
La Turchia di Erdogan non è certo patria esemplare per il rispetto dei diritti umani e dopo il fallito golpe di metà luglio le epurazioni in diversi settori delle istituzioni e della società turca non si sono mai fermate. Mettiamoci che sono un convinto sostenitore della causa dei kurdi, discriminati da sempre, e comincio a pensare che non mi permetteranno di entrare nel paese.
Consegno al poliziotto anche la mia carta d’identità per dimostrargli che sono proprio io ma quello continua a guardare la foto del passaporto e il mio viso con una faccia davvero poco convinta. Allora chiama un superiore e cominciano a parlottare. Mi trattengono una ventina di minuti con questo gioco idiota e alla fine si decidono a timbrarmi il passaporto e a riconsegnarmelo; posso andare.
Mi trovo nel terminal dei voli internazionali, sulle colonne e sui muri ci sono ancora i fori dei proiettili del 28 giugno, quando un commando dello Stato Islamico composto da tre terroristi sparò con pistole e kalashnikov sulla folla e poi si fece esplodere uccidendo 44 persone, di cui 19 straniere, e provocando quasi 250 feriti. L’aeroporto Ataturk (primo Presidente della Turchia) ha un doppio sistema di controlli. Il primo si trova all’ingresso dell’aeroporto, prima ancora di raggiungere i banchi del check in, ed è lì che hanno sparato gli assassini jihadisti. All’esterno trovo altri fori di proiettile e la lapide posta in memoria degli uccisi. Diverse coppie di soldati pesantemente armati monitorano le zone interne ed esterne dell’aeroporto.

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Prendo un taxi per andare in albergo e prima di avvicinarsi al centro le strade sono libere e la notte è piacevolmente fresca. In cielo splende la mezzaluna, esattamente come quella che si trova sulla bandiera turca e che simboleggia la fede islamica. Avvicinandosi alla zona europea cominciano gli ingorghi del sabato notte, che illuminano una gigantografia del presidente turco.

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Nei giorni seguenti mi muovo per una Istanbul militarizzata ma viva. La zona degli alberghi internazionali nei pressi di piazza Taksim è pattugliata e protetta, le auto non autorizzate non possono accedere perché nelle strade sono posizionate delle punte in ferro ritraibili per bucare i pneumatici di chi provasse eventualmente ad entrare. La zona è piena di persone venute da ogni luogo del mondo (moltissimi italiani e spagnoli) per effettuare qui il trapianto di capelli. Li si riconosce dalla testa rasata e dalla fascia nera sulla fronte che viene applicata subito dopo il trapianto. Tra gli occidentali e i mediorientali che fanno affari in Turchia ogni tanto si insinua qualche bambino mendicante che appena accenna ad entrare nella hall di un albergo viene subito allontanato dal personale. Donne coperte dal burqa integrale camminano coi mariti di fianco a ragazze coi jeans strappati da cui fuoriesce il ginocchio.

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La vita in piazza Taksim, nonostante i lavori in corso, trascorre nel solito via vai di persone che sfilano tra coloro che arrostiscono caldarroste e pannocchie e i poliziotti che indolenti osservano i bambini salire al volo sugli scalini del vecchio tram.

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Il piccolo parco Gezi che si trova su un lato della piazza fu teatro delle proteste che nel maggio 2013 contrapposero il governo, che voleva cancellarlo per ricostruire una caserma, e i manifestanti che nonostante la feroce repressione del movimento vinsero la battaglia. Il parco è ancora al suo posto, ma lo è anche Erdogan.

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La maggior parte del via vai si concentra nella via dello shopping, viale Istiklal, dove passa il vecchio e folkloristico tram di Istanbul che porta fino a Galata. La percorro tutta a piedi e constato che la polizia è onnipresente. Non ci sono solo le pattuglie in auto che a intervalli regolari fendono la folla di pedoni ma anche innumerevoli postazioni fisse con coppie di poliziotti con le armi in mano collocate a distanza di poche centinaia di metri. Stanno lì a ricordare che nonostante la via sia gremita qualcosa è successo e qualcosa potrebbe ancora succedere. Proprio qui il 19 marzo un kamikaze si fece esplodere provocando 5 vittime e diverse decine di feriti. Il governo diede subito la colpa ai kurdi ma si trattava di un militante turco dello Stato Islamico.
Sono almeno una decina i grandi attentati che hanno colpito la Turchia nell’ultimo anno, molti dei quali ad Istanbul e Ankara.

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Il richiamo del muezzin alla preghiera si leva forte cinque volte tra notte e giorno e ti raggiunge dagli altoparlanti anche se sei chiuso nella tua stanza di albergo. Una donna sulla quarantina, jeans attillati, seno prorompente e capelli di un biondo improbabile, mi fissa e strizza l’occhio. Io distolgo lo sguardo e allora prosegue la sua camminata ancheggiante alla ricerca del prossimo turista che abbia voglia di accompagnarsi ad una prostituta.
Laura lavora ad Istanbul come interprete ma è italiana. Le chiedo come ha vissuto il tentato golpe. “Mi ha salvato la vita l’autista del taxi che mi stava portando a casa. Mi ha fatto dormire a casa sua, sul suo divano. Fuori era un casino”.

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Istanbul è lontana dai confini turchi con la Siria, l’Iraq e l’Iran, è più vicina alla Bulgaria ma è una città in cui la vita quotidiana si accompagna alla consapevolezza che da un momento all’altro qualcosa possa accadere.
Dall’alto della torre di Galata si può abbracciare con lo sguardo questa megalopoli da 15 milioni di abitanti (la sesta città più grande del mondo) cresciuta tra lo stretto del Bosforo e il mar di Marmara.

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Qui il sapore speziato del kebab, le moschee, la gigantografia di papa Francesco davanti ad una chiesa, i bazar e i fast food convivono in un caos multietnico sorprendente.
E’ bella Istanbul, bella nonostante tutto.
Nonostante gli attentati e nonostante il suo governo.

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