Castelvetere, addì 19 marzo 1848: la rivolta dimenticata

Castelvetere, addì 19 marzo 1848: la rivolta dimenticata

castello portall clamore suscitato da quella vicenda scosse la rupe dalle fondamenta, e fece traballare la cresta frastagliata dove il paese s’era abbarbicato con i grumi delle case e il labirinto delle vie, tanti secoli or sono. Furono giornate raccontate per lunghi anni, ma chi ci abita oggi, forse, non le conosce, oppure non vuole ricordarle. Tuttavia, nel cimitero, nella notte di ogni ricorrenza del 19 marzo, vaga distinto un urlo adirato e imperioso, fende i marmi tombali, i tumoli di terra, gli ossari e i monumenti sepolcrali, infrange il riposo eterno delle anime dei defunti, risalendo dal fondo limaccioso di 168 anni. Là, v’era il convento dei cappuccini di Santa Maria di Primaluce, di quella che fu la Castelvetere di origine bizantina o tarda romana, e ora chiamata Caulonia.

Il padre guardiano della comunità dei frati ammoniva con cipiglio tuonante. “Obbedienza! Noi siamo qui per curare le anime e condurle a Cristo Nostro Signore! Non siamo qui per sovvertire l’ordine del Regno! Diamo a Cesare quel ch’è di Cesare e a Dio quel ch’è di Dio!” 

villa campisiQueste parole erano una dura reprimenda al pensiero ed all’azione di fra Gerolamo da Cardinale. Il frate pregò, supplicò, piagnucolò per lasciare il convento come avesse il compito urgente e gravoso di salvare delle anime in peccato mortale dalle fiamme dell’inferno. Fallì ogni gesto e ogni parola e a sua volta, irrequieto, tenne testa al suo superiore sordo e irremovibile, obiettando: “ma il santo Padre del nostro ordine, le cui opere furono ispirate dalla misericordia dell’Altissimo, non esitò a spogliarsi di tutto per abbracciare i più umili, i poveri e i lebbrosi .Ci ha insegnato che Dio è nella carne viva del nostro prossimo sofferente, è là che va cercato e adorato, là vanno curate le piaghe atroci della crocifissione terrena, mentre la Chiesa vive all’ombra di Cesare, non vede la sua ingiustizia che semina fame e disperazione!”

Questione dura da dirimere nel trapasso dei tempi ed ancora aperta ai giorni nostri. Il padre superiore aveva ben ragione, Francesco d’Assisi fu il primo uomo di pace che la storia ricordi, trasse dai vangeli una concezione della vita terrena imperniata sulla perfetta armonia tra il Creatore e il creato. L’universo e la terra, e con essi gli uomini, gli animali, le piante e le forze della natura, erano accomunati nell’amore fraterno che avrebbe dovuto ispirare ogni azione umana. Il Poverello d’Assisi si sottomise alle gerarchie ecclesiali e commise l’atto della disobbedienza trascendentale con l’imporsi il rigore crudo della vita ascetica e indigente, mentre Papa Innocenzo III e la sua corte erano assisi sul potere temporale della trasgressione, del lusso e della ricchezza più scandalosi, lontani dalle anime e dai principi originari della fede.

Fra Gerolamo voleva andare oltre, aveva la presunzione e l’ardire di applicare alla terra la Giustizia Divina. L’unica che avrebbe potuto alleviare i pesi grevi della vita degli ultimi. E da qualche tempo, dai pulpiti delle chiese andava predicando, con la sua bella oratoria, dell’iniquità a cui era sottomessa la povera gente. 

Credete che l’elemosina vi faccia meritare un posto in paradiso. Ma, in verità non avete guadagnato nulla! Da tanta ricchezza avete dato al povero solo il vostro superfluo per lasciarlo nella dipendenza della miseria. Gesù Cristo, nostro Signore, verità e luce del mondo, disse: è più facile che un cammello entri nella crune di un ago che un ricco nel regno dei cieli. Il vostro amore per il prossimo vi chiama ad un compito più alto: rinunciare a ciò che serve per farlo vivere dignitosamente con il proprio sudore.”

Pronunciava parole sibilline che capivano tutti. La gente annuiva con il cuore aperto alla speranza, riponeva i suoi occhi in quelli infuocati del frate, ne seguiva sospirando i gesti delle braccia, l’additare condannevole della mano ferma, la parola dai toni alti e taglienti. Partecipava sempre più numerosa e accalorata a quelle prediche, sentendo che il Dio di fra Gerolamo era il Dio dei derelitti, quello tante volte invocato nelle preghiere mentre la pignatta sul focolare bolliva erbe e radici di campo, o languiva coricata a pancia vuota sui giacigli dei tuguri. Al contrario, i ricchi cominciarono a disertare le chiese dove vi era la presenza del frate sobillatore. Ricorsero ai vecchi arnesi della maldicenza e della calunnia nell’intento di soffocare uno spirito libero che interpretava la sua missione di fede intimamente intrisa con i mali dell’epoca e ne traeva la necessità della preghiera e l’urgenza dell’azione. Costituiva un pericolo grave che andava fermato, mettendo sotto accusa la persona e la morale per bandirlo dall’ordine e dal paese. Al padre guardiano del convento giunsero pressioni e poi minacce per quel frate che dava scandalo e attentava ai beni sacri dei nobiluomini.

Fra Gerolamo non si lasciò intimidire, sentiva che gli eventi avrebbero presto incrociato la sua strada. Attese paziente. Mulinava nella mente le parole definitive e l’atto culminante per rendere esplicite e chiare le sue prediche. Avrebbe indicato il modo per consentire al povero una vita dignitosa.

Giunsero i primi giorni del 1848 e, pur essendo nel cuore dell’inverno, l’aria era calda dal sangue versato nel fallimento dei moti dell’anno appena concluso e che condussero al tragico epilogo della fucilazione dei martiri Gerace. Quei giovani carbonari, braccati dall’esercito Borbonico, chiesero protezione ai confratelli della baracca di Castelvetere, come venivano chiamati i nuclei carbonari locali. Furono nascosti nella grotta del “Ioco”, traditi, catturati ed imprigionati per due giorni nel carcere che fu il convento dei Domenicani adiacente alla chiesa del Rosario, conosciuto da fra Tommaso Campanella. Nessuno si mosse per la loro liberazione, così, trasferiti a Gerace, furono processati e sottoposti alla pena capitale.

In quell’anno tornarono i moti indipendentisti in Sicilia. Palermo insorse dando impulso all’insurrezione in tutta l’isola. Ferdinando II fu costretto a concedere la Costituzione. Gli echi giunsero forti anche a Castelvetere, generarono inquietudini e paure, e fra Girolamo, vedendo la Monarchia più debole e cedevole, pensò che i moti siciliani avrebbero contagiato tutto il Regno e nelle sue prediche lanciò lo strale finale: la spartizione tra i poveri delle terre comunali usurpati dai gentiluomini.

Nel resto del regno “protetto dall’acqua santa e dall’acqua salata”, al suono delle tofe, dei pifferi, dei tamburi, delle grancasse e delle trombe, i contadini, i braccianti e la povera gente si unirono e invasero le terre demaniali e delle mense vescovili, occuparono quelle usurpate, abbatterono siepi e recinti, le dissodarono per trarre il pane e la giustizia per il popolo affamato.

Una questione antica quella del Regio Demanio, aggravata dagli effetti delle leggi eversive imposte dai francesi. Il tempo aveva mostrato che a trarre vantaggio erano state le vecchia nobiltà e la ricca borghesia. Per il popolo rimasero speranze tradite e la compressione ancor più stringente degli usi civici, ovvero il diritto della collettività di coltivare, raccogliere, cacciare a cui ricorreva chi aveva solo le braccia per lavorare, traendo dai frutti sollievo all’indigenza. La dinastia del casato dei Carafa ed i nobiluomini avevano rubato quelle più fertili. facendo sparire le carte per impedire che si potesse risalire al proprietario originario, ossia il popolo bisognoso.

Fra Girolamo mise, perciò, il dito sulla piaga viva e sanguinante, suscitò un gran clamore al punto che i nobiluomini si divisero, si accusarono vicendevolmente di usurpazione. I popolani non attendevano altro, avevano trovato chi aveva saputo rappresentare la loro brama atavica: la fame di terra poteva essere finalmente soddisfatta, bisognava soltanto muoversi, l’occasione agognata per cambiare la propria vita era a portata di mano.

L’equinozio di primavera stava per sopraggiungere, quando l’interludio tra la notte e l’alba del 19 marzo vide affacciarsi per la prima volta sul proscenio della nostra storia gli eterni sconfitti, gli emarginati, i miserabili che non parteggiavano più per le fazioni contrapposte dei nobili o per i briganti, ma per se stessi e le loro famiglie, la loro prole numerosa. Si accesero le lucerne nelle case basse, nei tuguri, nelle stalle e tanti a cavalcioni sui basti degli asini, seguiti dalle donne e dai figli, uscirono, frusciando sul lastrico dei vicoli i piedi scalzi e gli zoccoli ferrati, dalle quattro porte per attendere alle fatiche dei campi, e tanti altri con i piedi nudi e gli scarponi chiodati confluirono verso piazza Seggio, che ben presto si riempì di ombre umane insolite, indistinte e confuse. Le mani armate di roncole, accette, forconi, schioppi e pistolone a tromba arrugginite fremevano in un silenzio zeppo d’ansia avvolgente, sovrastante. Più i crocchi delle persone crescevano e si moltiplicavano, più un’idea di forza e di potenza pervadeva gli animi e l’infuocava, come accesi dal sole che si stava levando. Parevano pronti a tutto, anche a far scorrere il sangue a fiotti lungo le vie.

La luce dorata del nuovo giorno irradiò i campanili, i tetti delle chiese e dei palazzi, e diede il segnale atteso. Tante grida si levarono all’unisono, agitando le armi improvvisate strette nelle mani, si fusero in un solo grande urlo; un ruggito divorante che nell’alzarsi nel cielo arrossato dilatava lo slargo della piazza. Giacinto, un ragazzo bruno con la zazzera ricciuta, mezzo nudo e sordomuto, prese due pietre e le battè l’una contro l’altra, affidò a quei rumori afoni le parole che gli agitavano il cuore.

Non gridavano viva la Costituzione, viva la libertà, viva l’Italia unita, erano lontani, distanti dagli ideali e dai programmi delle logge massoniche e delle sette carbonare a cui aderivano tanti galantuomini usurpatori del demanio.

Terra, vogliamo la terra”, a noi le terre usurpate!”, erano le richieste che andavano e venivano col muggito stentoreo delle onde infrante dai fortunali. Una calamità tellurica improvvisa percosse le ampie vetrate, e rimbombò tra i fregi dorati delle grandi stanze del palazzo del barone Musco, lo assalì e lo invase come l’alta marea mentre sognava placido nel suo baldacchino adornato da drappi di seta. Il barone, mezzo sordo, si svegliò di schianto, inforcò gli occhiali e cercò tremante la campanella, scendendo dal letto tremante e confuso. La agitò con movimenti larghi e rapidi finchè non emise le squilla di un richiamo cupo e allarmato. Accorse per primo il servitore più fedele a cui chiese: “Che succede? Cos’è questo fracasso?”

La gente grida che vuole la terra.” Gli urlò in un orecchio il servo.

La terra! E che terra?” Replicò sbalordito il vecchio signore.

La terra! La terra di tutti, anche quella di vostra eccellenza!” Fu la nuova risposta secca che trafisse il cuore traballante del barone.

Ah no! La mia terra no! Presto, armatevi, sbarrate il portone e i magazzini, appostatevi dietro finestre e balconi e sparate a chi si avvicina al mio palazzo.” A questo ordine seguì un fuggi fuggi disordinato verso l’armeria e presto la servitù, i fattori, i braccianti, gli stallieri presenti si misero a spiare quello che accedeva nella piazza antistante.

Il panico del barone Musco contagiò gli altri signori, ormai asserragliati nei loro edifici patrizi, e si diffuse in un lampo tra le case e le vie. Le povere guardie urbane non ebbero il coraggio di varcare la soglia di casa, in fretta vuotarono le vecchie cassapanche per nascondersi dentro ed origliare dalle fessure. Nell’angustia delle piccole stanze buie, disadorne e scarne, le donne trepidanti scorrevano inginocchiate la corona del rosario.

A giorno ormai chiaro, la piazza straripava di folla tesa, vestita da abiti rudi dai colori quasi uniformi per quanto erano stinti, lisi e rattoppati, di berrette e cappelli, di barbe e mustacchi di sego, di braccia alzate come rami al cielo nel folto dei boschi, di occhi furenti e bocche digrignanti nell’urlo inesausto, immoto, stretto in una indecisione lacerante. Che fare? Come prendere la terra? Come spartirla? Il conciapelle Ilario Oppedisano e l’inserviente comunale Francesco Scuteri ruppero l’indugio gridando: “al castello, andiamo al castello!” Divennero i capi della rivolta e tutti si mossero come un corpo solo, turbolento nella salita della strada principale del paese. Divelsero porte e cancelli, entrarono nel castello diroccato, poi nell’ex convento dei domenicani, nella villa dei Campisi al Carmine e in altri locali, Non cercarono né aggredirono le persone più invise, ma i simboli del loro potere, come volessero mandare un ammonimento, il preludio a conseguenze più gravi e nefaste.

Ad un certo punto si fece strada la certezza che sarebbe intervenuto l’esercito ed il paese, di cui ormai si sentivano padroni senza spargere una goccia di sangue, poteva trasformarsi in una trappola mortale. All’infuori delle quattro porte non esistevano vie di fuga nel caso di scontro a fuoco con uomini addestrati alla guerra e ben armati. Decisero di uscire, rubarono per sfamarsi tutto ciò che trovarono negli orti e nei poderi sottostanti la rupe. La terra s’apriva compiaciuta alla selva dei passi, e le pozze dell’ultima pioggia nella strada brillavano sorprese e stupite. Si diressero muti e si radunarono in un punto preciso: al Calvario, a pochi passi del convento dei Cappuccini di Santa Maria di Primaluce, dove lasciammo fra Gerolamo in accesa discussione con il padre guardiano.

I suoi figli, ora, erano là, sotto l’avanzare di un cielo notturno vispo di stelle e dei fiati ansimanti nell’aria primaverile della campagna, odorosa dei nuovi profumi dei fiori appena schiusi. Tutto conduceva alla serenità silenziosa della notte, alla riconciliazione con gli uomini e la natura. Ed anche i loro cuori accesi come la sulla porporina rifluivano verso la riflessione. “Che fare?” Si chiedevano il conciapelle ed il messo comunale. E fra Gerolamo avvertì quel momento di incertezza, di disperazione, di richiesta di soccorso. Non avrebbe potuto abbandonarli, doveva unirsi a loro, guidarli e condividere nel bene e nel male la loro sorte. Ma il suo superiore glielo impedì. “Obbedienza!” E l’obbedienza era uno dei cardini dei suoi voti, un tutt’uno con i principi della fede che non avrebbe mai potuto tradire. Rimase nella sua cella inginocchiato a pregare contrito e con gran fervore per quei poveri diavoli che, al contrario, pensarono di essere stati abbandonati in quella notte insonne.

Intanto, i galantuomini, gli amanti dell’ordine monarchico soverchiatore, si dettero un gran da fare: trovarono uomini servili di buona volontà disposti ad armarsi, fecero barricare le quattro porte, piazzarono dei cannoni di ghisa, ma non trovarono molta adesione nella gente rimasta nell’abitato. Nessuno avrebbe potuto uccidere il fratello, il consanguineo, l’amico, il vicino di casa. Il cardinale Ruffo creò e guidò l’esercito della Santa Fede per rimettere sul trono il borbone Ferdinando IV, e l’arciprete della Matrice, memore di cotanto ardore in quel momento tragico e solenne, convocò il numeroso clero al grido di “Viva il Re! Viva Dio!”, e anche i preti presero le armi per sparare sul gregge che l’Altissimo gli aveva affidato.

Nei giorni successivi ci furono incruenti scambi a fuoco che fecero risalire nel sole soltanto rose di fumo e l’acro odore della polvere, fu sparato pure un colpo di cannone contro gli insorti dalla cima del castello, poi arrivò la guardia nazionale dei paesi vicini e, a marce forzate, un grosso contingente dell’esercito borbonico da Reggio Calabria, La plebaglia si dileguò, si disperse, si dette alla macchia finché non fu sicura di poter tornare a casa come un cane bastonato con la coda tra le gambe. Fu facile, troppo facile. Solo Castelvetere si era mossa in tutta la provincia di Reggio Calabria. Ancora le armi e la repressione cieca, la criminalizzazione di chi si ribellava alla madre di tutte le ingiustizie. La negazione della condizione disumana e del diritto ad una vita dignitosa furono le risposte di un potere inviso e spregevole che considerò quegli uomini un’accozzaglia di sanguinari, di comunisti senza saperne ancora il significato, di nemici di Dio, del Re e della quieta convivenza civile tra dominatori e dominati.

Il clero ancora una volta scelse Cesare, i nobiluomini si sentirono legittimati nel loro furto secolare, i ribelli tornarono a capo chino, umiliati nella loro miseria e fra Gerolamo fu visto partire con le sue poche cose sulle spalle, il bastone del viandante, la lunga barba francescana, la tonaca fluente al passo frettoloso e con una falda del cappuccio tirata sul viso per non essere riconosciuto. Ebbe un coraggio grande quanto la sua fede, sfidò un potere sordo ed opprimente, portò tra la gente il volto sofferente del vero Cristo ed indicò la via maestra per uscire dalla miseria. Ma nessuno gli fu riconoscente e la rivendicazione delle terre usurpate tornò a vivere altre vane primavere..

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