Benny Nonasky: intervista per Ciavula sul libro ” la città delle mosche “

Benny Nonasky: intervista per Ciavula sul libro ” la città delle mosche “

Per i lettori di Ciavula, presentiamo con un’intervista il nuovo libro di Benny Nonasky, poeta e scrittore cauloniese, intitolato “La città delle mosche”. Questo nuovo libro verrà presentato alla Mondadori di Siderno, nel centro commerciale La Gru, venerdì 4 agosto, alle ore 18:30.

Buona lettura e partecipate all’evento numerosi.

 

1 –Questo libro ha una struttura che attraverso il modello ordinato, scientifico, della logica, si confonde a ritmo di caos, incalza nei ricordi e nelle strutture umane, che alla fine riescono, partoriscono un sentimento, una storia una nostalgia della vita, una calma che prelude una possibilità incognita. Un ordine nell’empatia. Tutto questo è un castello ben congegnato. Si tratta più della descrizione di un paesaggio o di un’offerta di riscatto?

Non posso stabilirlo io se sia un’offerta di riscatto, un qualcosa che porti la gente a una comprensione più sana e pertinente della realtà del luogo, del modo col quale interagisce con esso. Descrivere è un metodo per spiegare. Ciò che io provo a raccontare è semplicemente il reale e la quotidianità, entrambe confluite in un rimpasto ciclico del tempo, dove il presente si veste di un passato mai troppo remoto, perché prosegue nella nostra contemporaneità, rendendo quasi impossibile un fruibile futuro. In una società dove il privato è una condizione che scaturisce dall’ambiente – in questo caso un’ambiente opprimente, minaccioso, privo di aspettative future – succede che l’identità della persona sia un tutt’uno con la realtà che attorno gli pascola. E qui: o sei in un determinato modo, e accetti tale situazione, o rischi di restare fuori, con tutti i pericoli che ciò comporta. Naturalmente pericoli che possono condurre alla morte. Ed è per questo che posso affermare che il paesaggio è connaturato al fattore psicologico della persona che lo vive e che, quindi, lo determina. La bruttezza del luogo è scaturita dalla bruttezza e dalla tristezza dell’essere umano in sé, creata e manipolata senza vergogna né rimorsi. La natura non produce nulla di osceno. Le poesie, nella prima sezione, raccontano di uomini che comandano e uccidono (sia mentalmente che fisicamente) tutto ciò che li circonda; animali, alberi, donne, uomini e bambini. Nella seconda parte, invece, entra in scena la natura, il suo potere consolatorio e invincibile. Improvvisamente lì, per quanto tenti di violentarla con roghi, inquinamento, sangue, l’uomo non ha alcuna possibilità di potere, rimanendo indietro: sia sulla questione turistica/ambientale che verso la sua plateale magnificenza. Ecco: forse il riscatto si pone nel perdono e nella cura della terra, nel nostro totale abbandono di una cultura antica e logora, di comprendere l’importanza della foglia, dell’acqua, del lupo della Sila. Capire che la vita non è uno stringere la mano a mafiosi e politici, o andare in giro vestito come un manichino d’oro, ma nel condividere e sporcarsi le mani, ricostruire le scuole e i luoghi ricreativi, le biblioteche e il teatro, il bergamotto e il lavoro, la nostra tradizione manuale e culinaria che il mondo ci invidia. Cose semplici. Cose fattibili e che solo noi abbiamo.

2 Peppino Impastato diceva che “la mafia è una montagna di merda”. La città delle mosche, che tipo di rapporto ha con questa affermazione? Da che esigenza nasce e cosa l’ha ispirata? 

Credo che tutte le persone con sentimento in corpo pensino che ogni tipo di mafia sia una grande montagna di merda. Il mio libro ha un relazione puramente rettale con l’affermazione di Peppino. Per me, ormai, non è più possibile considerare la mafia come organizzazioni di merda, ma tutto il sistema sia territoriale che cittadino. Io li metto tutti sullo stesso piano: cittadini (perché complici nella loro passività) e ’ndranghetisti (anche se questo pensiero può essere esteso a tutto il centro e sud Italia). L’intero libro si regge su questa metafora: ci sono mosche grandi, ‘ndranghetisti e politici, e mosche piccole (i comuni cittadini) che vivono in una città di merda, la Calabria, il Sud in generale. Ma questa merda non è auto-generativa, cioè non si è formata o si forma autonomamente. Bensì viene continuamente inoculata dalle persone (in questo caso, sotto le sembianze di mosche) che ci vivono sopra. Oggi è tutto correlato. Se il colpevole è la ‘Ndrangheta, i cittadini sono complici per le loro illegali azioni, col silenzio e l’abituarsi e adattarsi ad una specifica cultura mafiosa che risiede nel nostro sangue. Comprendo la paura, ma non perenne. Se loro sono migliaia, noi siamo milioni. La matematica difficilmente sbaglia. E che ci lamentiamo troppo e abbiamo il menefreghismo in corpo. Sinceramente non m’interessa il risentimento che alcune persone possano avere dalle mie parole. Non più. Adesso: o si grida o ci si perde nel bosco. Per rispondere alla tua seconda domanda, dico: l’esigenza nasce da questo: non perdermi nel bosco, dal provarci almeno, anche se le statistiche affermano che sono fottuto al prossimo giro, che non c’è più niente da fare, che la merda ha fatto innamorare tutti. Non ci credo. Non scriverei più poesie.

3 – Attraverso il ritmo sincopato della seconda parte di “Altre poesie dalla città”, emerge una lotta intestina. Tra quali tipi di sentimenti? Collettivi e individuali?

Come già spiegavo nella prima domanda: la seconda sezione è il rilancio della medaglia, sotto forma – come tu evidenzi nella domanda – di scontro, di botta e risposta tra il negativo e il positivo (“Sì: vengo dal luogo dove il / mare bacia la montagna”), tra poesie che tratteggiano il lato difficile e degradante del luogo e dei rapporti umani (“Qui si scanna per uno sguardo / bieco”) e quello invece sano e buono che si trova principalmente nella natura e la sua grandezza e opportunità (in senso di risorsa sia biologica che turistica). Il libro è di tutti. Quindi i sentimenti sono collettivi. Anche se è stato scritto da me, il dramma e la bellezza è comunque quella che tutti vivono e sopportano.

4 – Ci hai già abituati in altri libri a un tipo di scrittura diretta e comunicativa con frammenti di prosa, questa volta però è il senso stesso, un’intera sezione ad essere affidata a questo stile. Qual’e il motivo?

Effettivamente mi piace, dove il testo e la tecnica lo permettono, combinare gli stili e sperimentare nuove forme di linguaggio (sia fonetico che testuale). In questo caso ho deciso di inserire un racconto integro senza fratture espressive per poter mantenere il messaggio diretto e lineare. Il racconto nasce da un’esigenza intima perché arriva direttamente dal cuore, dal cuore di un uomo che sta morendo per una donna, una donna che forse non conosceva neppure l’amore che lui provava nei suoi confronti. Un’amore non voluto, dal cognome sbagliato, di una famiglia diversa e non desiderata. Un omicidio che comporta una delle morti più stupide: quelle amorose, che purtroppo avvengono tutt’oggi, nell’assurdità che l’atto contiene. Il finale della narrazione è lasciato alla pura interpretazione del lettore. Questo lo scoprirete e lo capirete leggendo il libro.

5 – Molti autori hanno usato la metafora animale per raccontare le implicazioni della natura umana. Perché proprio le mosche?

Le mosche sono commensali. Le mosche hanno sempre seguito l’uomo nella sua migrazione geografica e temporale. Molto probabilmente, senza l’uomo le mosche non esisterebbero. Ho dovuto fare uno studio scientifico per capirle e rapportarle, successivamente, nel linguaggio poetico. Sembra complicato, ma danno soddisfazioni. Le mosche sono insetti che fanno parte della vita umana, si alimentano di essa. Si trovano ovunque. Come i calabresi. Un detto dice: in ogni paese che vai, troverai un calabrese. Le mosche non potevano che essere un buon esempio. Poi c’è di mezzo la merda. E la merda è il termine esatto da utilizzare per descrivere lo scempio, la corruzione, la cultura mafiosa della nostra regione. Le mosche non potevano che essere un buon esempio.

6 – Infine la metafora si scontra in modo evidente con una realtà che dichiari anche nel disegno della mosca attraverso il suo sezionamento e il rinominarne le parti con i famosi cognomi. Perché le mosche diventano una e quanto questo concetto di collettività ribalta o costruisce la città che fondamentalmente è di merda? Come può un’unica struttura costruire in modo incontrastato una città di merda? Esiste un’altra collettività?

Sì, chi acquisterà il libro troverà al suo interno una grande mosca suddivisa in sezioni, ognuna di queste indicate con i cognomi malavitosi più rinomati e conosciuti. È stato un modo di rendere la mosca l’intero mondo nel quale noi viviamo. La città di merda, effettivamente, è nella nostra persona che la costruisce e l’alimenta. L’ambiente che ci circonda, come già ho esposto, è un prodotto delle nostre azioni. Qui la collettività si fa uno nell’attimo in cui le persone compiono tutti gli stessi gesti e usano le identiche espressioni per rappresentare e rappresentarsi. Che sia la carta che si butta dal finestrino, l’omertà, l’andare in giro senza casco o con i fucili nel cofano delle auto, queste azioni sono espressioni unanimi che si traducono in un solo grande mostro che distrugge la civiltà e il suo ordine di legalità. Un’altra collettività sta nelle prossime generazioni, nella fortuna di aperture che sono impossibili da evitare, come la tecnologia, internet, il muoversi con più facilità. Il problema resta sempre quello demografico. L’imperturbabile e costante tradizione a traino mafioso e tendente alla chiusura farà sempre più fuggire i ragazzi e le ragazze che si affacciano alla vita, alle sue mille e oltre possibilità. Qui, oggi, possibilità non ce ne stanno. E, con rammarico, devo dire che sono davvero in pochi coloro che fanno qualcosa per creare possibilità. Il libro non vuole insegnare o spiegare nulla. È nato per dire quello che vede. Esterna un dolore che produce sia fallimento che voglia di riscatto. Questo libro è entrambe le cose. Spero possa offrire qualcosa. Anche in questo caso, sarà il lettore a deciderlo.

Di seguito, alcune poesie riprese dal libro.

 

*

É una città di

merda.

<<Me cumpà, i cosi

càngianu

si cangia a

a genti.

Ma a genti

simu nui.

E a nui

sulu a morti

ndi cangia.>>

Lo ripeto:

è una città di

merda.

*

Mosche da vacca.

Mosche di ciucci.

Mosche infami,

hanno larve

nella loro urite.

Figliano ovunque.

Basta un taglio

e muoiono vacche

e ciucci.

(Ad esempio:

più in là, ai lati della chiesa Zaccaria,

due bambini giocano a carte,

due bambini suonano tamburelli,

tre si fanno foto col cellulare.

Si stanno già decomponendo.)

*

La Storia:

Omero corre verso Napoleone

tra gli arazzi del Califfato,

i cerini di Nerone e le rivolte

taurine, in un’Unità geografica

divorata nella Cassa del Mezzogiorno.

La Storia.

Poi l’alcolismo, i favori costanti,

le rotonde da cartolina, gli

struzzi deportati, le spadare.

Povertà come scarpa che schiaccia.

E

devastazione

e

catoi

per dimenticare.

*

Sì: la violenza si assapora nelle

   note musicali dei colpi sommersi,

   nel fremito di una ciglia –

   un insetto diverso dalla

   propria razza.

Sì: la violenza dimora nella meraviglia

   di un sole potente dietro un

   ramo dell’Aspromonte, dopo la

   Limina. Un ritaglio indiscutibile.

   Scilla, Cariddi e ricotta fresca.

   Un profumo indiscutibile.

 

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