Joca, il “Che Guevara” di Calabria che sfidò il regime dei Gorillas

Joca, il “Che Guevara” di Calabria che sfidò il regime dei Gorillas

Notizia tratta da: repubblica

L’uomo venuto dalla Calabria che voleva sfidare il regime dei Gorillas si chiamava Libero Giancarlo Castiglia ma per i guerriglieri dell’Amazzonia era semplicemente “Joca”. Emigrato con la famiglia in America Latina nella metà degli anni Cinquanta, fece il metalmeccanico a Rio fino a quando cominciò a collaborare con la redazione del giornale comunista “A classe operaia”.

I PRIMI ANNI DELLA LOTTA
Erano anni difficili da quelle parti, la dittatura militare aveva deposto con la forza il governo trabalhista di Joao Goulart, uno dei primi atti del regime fu vietare gli scioperi e mettere fuori legge le forze politiche di opposizione. Castiglia ci pensò a lungo: poteva rientrare in Italia ma alla fine decise di rimanere per combattere contro i militari. “Nella vita bisogna fare una scelta – spiegò ad amici e familiari – Lo so che questo non è il mio Paese, ma c’è la libertà da difendere e se nessuno ci prova le cose non cambieranno mai”.

NASCITA E MORTE DI UN MITO
Castiglia andò in Cina per addestrarsi alla guerriglia, quindi trovò rifugio nel cuore dell’Amazzonia dove guidò per anni un manipolo di ribelli, sessantanove in tutto, capace di mettere sotto scacco l’esercito di Rio de Janeiro. Battaglie epiche che trasformarono “Joca” in uno dei miti della povera gente, quella senza diritti che vedeva in quel “ribelde italiano” l’ultima speranza di una vita migliore. Lo chiamavano il “Che Guevara” di Calabria, gli portavano rispetto, lo consideravano un capo. Ma fra il 1973 e il 1974 “Joca” e i suoi uomini sparirono nel nulla dopo un imponente rastrellamento dei soldati. Trucidati senza pietà e seppelliti in una fossa comune alla foce del grande fiume Araguaia.

IL CORPO CONTESO
Notizie che abbiamo appreso soltanto all’inizio del nuovo millennio quando da quelle parti venne ritrovato uno scheletro con le mani mozzate. I resti del povero Castiglia, come avrebbe accertato l’esame del Dna. Da quel giorno è cominciata una battaglia legale infinita tra la famiglia di Libero Giancarlo e il governo brasiliano: “Ridateci il corpo – ha supplicato per anni l’anziana madre di “Joca” – ditemi la verità sulla sua morte e qualcosa su cui pregare”.

L’INCHIESTA E IL LIBRO
La risposta è sempre stata il silenzio. Nessuno ha mai voluto dare alla famiglia quello che gli spetta di diritto e la storia di Castiglia sarebbe probabilmente rimasta sconosciuta senza l’ostinazione di un giovane giornalista calabrese, Alfredo Sprovieri, che si è messo a caccia di documenti inediti, verbali coperti da segreto, testimoni dell’epoca e adesso ha raccolto tutto il lavoro di anni in un libro pubblicato da Mimemis/Passato Prossimo: “Joca, il Che dimenticato”, la vera storia del ribelle italiano che sfidò il regime dei Gorillas, è un’inchiesta puntigliosa e appassionante impreziosita dall’introduzione di Goffredo Fofi: “Quello di Sprovieri – scrive l’intellettuale umbro – è un libro sul nostro pallido e conformista presente (chissà se anche brasiliano), su un’epoca in cui non si crede più nella possibilità di cambiare il mondo e nella scelta di seguire attivamente la strada della giustizia sociale sino in fondo, correndo tutti i rischi che questa scelta obbligatoriamente comporta. Una storia di semplici militanti, contadini, operai, artigiani, gente comune, emigrati”.

Il libro racconta le città e le foreste nelle quali il Plan Condor inghiottì la meglio gioventù sudamericana. “L’ordine – racconta Sprovieri – fu quello di uccidere, di sterminarli tutti e di sotterrare ogni traccia del loro coraggio. Ma si sbagliarono, perché quei ragazzi non erano solo corpi: erano semi e, come il fiore, la loro verità prima o poi troverà luce”. Un’inchiesta che rivela retroscena inediti sulla vicenda e ci riporta ai giorni nostri. Perché la battaglia per conoscere la verità su “Joca” e i suoi fedelissimi non è mai finita.

Lucio Luca

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