L’ultimo articolo del reporter ucciso in Slovacchia, i tentacoli della ‘ndrangheta che si estendono fino alla politica

L’ultimo articolo del reporter ucciso in Slovacchia, i tentacoli della ‘ndrangheta che si estendono fino alla politica

Notizia tratta da: repubblica

Questo è l’ultimo articolo scritto dal nostro collega Ján Kuciak, l’ultimo caso a cui ha lavorato. Non ha potuto finire l’articolo e pubblicarlo perché è stato assassinato insieme alla sua compagna, Martina Kušnírová.

Aktuality.sk, in collaborazione con il centro di ricerca di giornalismo investigativo ceco Investigace.cz, l’organizzazione giornalistica Investigative Project of Italy e il consorzio internazionale di centri investigativi Organized Crime and Corruption Reporting Project, hanno ripercorso la storia dell’insediamento in Slovacchia di personaggi vicini alla ‘ndrangheta.

Quattordici anni fa, un italiano di nome Carmine Cinnante arrivò nella cittadina di Michalovce. Una mattina partì con la sua Fiat dal paesino di Novosad, a circa 40 chilometri da Michalovce, dove viveva con la sua fidanzata, Lýdia. Cinnante era diretto verso l’Italia. Insieme a lui viaggiava uno slovacco di nome Ján, a cui aveva promesso di trovare un lavoro in Italia. A quell’epoca, nel distretto di Mihalovce, una persona in età lavorativa su quattro era disoccupata.

Mentre i due stavano guidando su una stradina di campagna, verso la strada principale che collega i paesini di Porostov e Ostrov, nel distretto di Sobrance, notarono una pattuglia della polizia. La Fiat Punto bianca con targa italiana iniziò improvvisamente a fare inversione. I poliziotti si insospettirono per il comportamento dell’uomo, fermarono l’auto e controllarono. Sul sedile posteriore trovarono una valigetta di legno nera con un’arma da fuoco, 50 pallottole e un caricatore. Era un fucile mitragliatore di fabbricazione cecoslovacca modello 26 con un mirino laser, ma il numero di serie era cancellato. Secondo gli esperti, la valigetta era fatta appositamente per trasportare un mitragliatore. Cinnante fu accusato di possesso illegale di armi e il giudice della corte distrettuale di Michalovce lo condannò a due anni con la condizionale. In quell’occasione il pubblico ministero definì l’italiano un «imprenditore con attività in Slovacchia nel campo dell’agricoltura».

I tentacoli arrivano fino all’ufficio del primo ministro.
Alcuni mesi dopo, la polizia italiana arrestò Cinnante con l’accusa di contrabbando di armi per conto del boss Guirino Iona. Iona era il boss della cosca di Belvedere di Spinello, uno dei clan della mafia italiana economicamente più potente ai giorni nostri, la ‘ndrangheta. Come i documenti dell’inchiesta dimostrano, Carmine Cinnante è anche un affiliato della ‘ndrangheta. Un uomo che le autorità slovacche conoscevano solo come imprenditore agricolo. Ma Cinnante non è l’unico italiano legato alla mafia ad aver trovato in Slovacchia una seconda casa. Queste persone hanno cominciato a fare affari, ricevere sussidi, attingere ai fondi europei e soprattutto costruire rapporti con politici influenti, su fino all’ufficio del primo ministro. Nel frattempo, anche in patria, in Italia, avevano parecchi problemi con la giustizia.

Con la fiducia della ‘ndrangheta.
In una cooperativa agricola tra i paesini di Dvorianka e Parchovany, nel distretto di Trebišov, il business del mafioso Carmine Cinnante si incontra con Antonino Vadalà. Anche lui aveva problemi con la polizia in Italia. Il 3 febbraio 2003, un lunedì, il tribunale di Reggio Calabria doveva decidere sulla sorte di nove imputati in una causa riguardante un’altra cosca, i Libri, una delle più potenti di tutta la ‘ndrangheta. Tra gli imputati c’era Antonino Vadalà, originario del paesino di Bova Marina, nel Sud della Calabria. Secondo gli investigatori italiani Vadalà, su richiesta del clan, aveva contribuito a nascondere il mafioso Domenico Ventura, condannato per il brutale omicidio di un membro di una banda rivale, e lo aveva aiutato a fuggire. I poliziotti italiani avevano intercettato conversazioni telefoniche fra Antonino Vadalà e Francesco Zindato, il capo del clan, in cui discutevano dei dettagli dell’azione. Nel 2003 Vadalà venne rilasciato per mancanza di prove.

In un altro caso, il giudice nella sentenza descrive una situazione in cui Antonino Vadalà e altri due uomini erano andati fino a Roma per «punire» fisicamente una persona non meglio specificata che aveva «arrecato danno al clan». «Il boss del clan, Francesco Zindato, affidò il compito agli uomini di cui si fidava maggiormente, e fra questi c’era Antonino Vadalà», spiegava il giudice. Vadalà non andò in tribunale ad ascoltare il verdetto. Trovò rifugio e una nuova casa nella Slovacchia orientale.
Mise in piedi un’attività redditizia nel settore agricolo, poi nel campo dell’immobiliare e nell’energia, diventando uno dei personaggi più in vista della comunità italiana in Slovacchia.

Imprenditore energetico.
Nel 2009 si diffuse la notizia che un uomo d’affari italiano, tale Antonino Vadalà, progettava di costruire due fabbriche nell’area industriale di Lucenec, per quasi 70 milioni di euro. Anche se il progetto alla fine fu cancellato, Vadalà divenne un «imprenditore energetico», nelle parole dell’ex ministro dell’Economia Pavol Rusko, ora accusato di essere il mandante di un omicidio. Paradossalmente, Rusko si è ricordato di Vadalà tramite la prima consigliera di Stato Mária Trošková, che lavora a stretto contatto con il primo ministro Robert Fico. «Lavorava per noi da circa tre mesi. È passato molto tempo, parliamo di circa quattro anni fa. Ma all’epoca incontrò un imprenditore di origini italiane, che aveva interessi, fra le altre cose, nel campo dell’energia solare, e andò a lavorare per lui», ha detto Rusko all’epoca.
Il fatto che la sua carriera fosse proseguita con Fico, all’ufficio del primo ministro, non lo ha sorpreso: «Beh, non pensavo che avrebbe fatto così in fretta, ma sostanzialmente la cosa non mi ha sorpreso, perché era una che capiva molto in fretta come si fanno le cose nella vita».

Trošková e Jasan.
Nell’agosto del 2011 Vadalà e Mária Trošková fondarono la Gia Management. Trošková lasciò la società dopo un anno e andò a fare l’assistente del parlamentare Viliam Jasan. Jasan non ha voluto dire dove avesse trovato questa donna famosa modella, che aveva addirittura partecipato alla finale di Miss Universo nel 2007. Ha detto solo che gliel’aveva raccomandata un amico. «L’assistente che avevo prima mi ha lasciato e un amico mi ha raccomandato questa donna», ha detto Jasan al quotidiano Nový Cas. Non ha voluto confermare se l’amico in questione fosse Antonino Vadalà.

Tuttavia, nel giro di neanche un anno, nel marzo del 2015, Maria Trošková lasciò l’ufficio di Jasan e cominciò a lavorare nientemeno che per il capo del Governo, Fico, all’ufficio del primo ministro. Un anno dopo la raggiunse anche Jasan. Fico lo nominò direttore dell’ufficio e segretario del Consiglio di sicurezza dello Stato.
Jasan ottenne anche l’accesso ai documenti top secret. Come segretario del Consiglio di sicurezza riferisce direttamente a Fico. Partecipa alle riunioni del Consiglio, elabora dichiarazioni riassuntive per Fico e ha il compito di documentare le attività del Consiglio. In questa veste, ha accesso a tutti i documenti e le informazioni del Consiglio, che ha il compito di garantire la funzionalità del sistema di sicurezza del Paese e che assume i poteri esecutivi in tempo di guerra.

Ma è dimostrato che Jasan ha legami con un uomo che lavora alle dirette dipendenze della ‘ndrangheta. I rapporti fra Jasan e Vadalà sono evidenti soprattutto nel campo degli affari. Il politico dello Smer-Sd, il partito al potere, possedeva una società di sicurezza privata, la Prodest, rilevata recentemente da Vadalà e i suoi colleghi. Inoltre, il figlio di Jasan, Slavomír, ha ancora una joint venture con gli italiani, l’Avj Real. Oltre a tutto questo, quando una delle aziende di Vadalà recentemente ha dichiarato bancarotta, è venuto fuori che Vadalà aveva delle partecipazioni in un servizio di sicurezza privato con cui in passato erano coinvolti Jasan e suo figlio Slavomír. Questo significa che due persone vicine all’uomo che è arrivato in Slovacchia come persona accusata di associazione mafiosa in Italia hanno accesso quotidianamente al primo ministro slovacco Robert Fico, che li ha scelti personalmente.

Vadalà vota Smer.
Oltre a Jasan e alla Trošková, intorno ad Antonino Vadalà emergono altri legami con la politica, e con il partito Smer-Sd in particolare. Per esempio, Monika Corejová, contabile di Vadalà da molto tempo, in passato si è candidata per l’assemblea regionale. Vadalà stesso sostiene con decisione lo Smer, soprattutto sui social network. Elogia Fico di fronte ai suoi amici italiani, difende il ministro Kalinák dai maneggi dell’opposizione e sostiene con entusiasmo Richard Raši, un altro esponente dello Smer, nella sua campagna per la presidenza della regione autonoma di Košice.

Il giorno del voto, Vadalà gridava ai quattro venti che «oggi votiamo tutti il n. 16 Smer e possiamo star certi che domani la Slovacchia sarà in buone mani». Durante la campagna elettorale dichiarava apertamente di voler partecipare al congresso del partito a Košice. Ha scritto pubblicamente a Raši dicendo che «si sarebbero visti lì». Ha definito lo Smer «il nostro partito». Quando è stato formato il Governo di coalizione attualmente in carica, Vadalà ha festeggiato.

Pallottole e corone funebri.
Vadalà e i suoi amici italiani hanno avuto problemi con la legge anche in Slovacchia, ma nonostante una serie di procedure penali contro di loro, finora sono riusciti a sfuggire alla giustizia. Ecco solo alcuni esempi dei casi che li vedono coinvolti, e in cui sono sospettati di estorsione e frode fiscale. Aktuality.sk, insieme ai suoi partner, ha ricostruito i casi studiando gli atti giudiziari e i documenti di polizia, ottenuti grazie alla legge sul libero accesso all’informazione. Il primo di questi casi ha come scenario l’Est della Slovacchia, nel 2013. Un mattino di autunno, i dipendenti di un’azienda nella città di Trebišov trovarono una strana missiva sul cancello di ingresso.

Era una busta appeso alla ringhiera e conteneva fiammiferi, dieci pallottole e una corona funebre, il tutto avvolto in un pezzo di carta con su scritto «Jerad», versione storpiata del nome del loro principale, Gerhard. Secondo loro era l’avvertimento di un concorrente, e faceva seguito a minacce di morte. Il nome storpiato «Jerad» era usato spesso da un italiano che rivendicava per sé quasi 40 ettari di terreni agricoli coltivati dall’azienda.

Jerad inizialmente ignorò l’avvertimento. Lo denunciò alla polizia quando anche un suo dipendente, un guidatore di trattori, venne minacciato. Dopo due anni di indagini un parente di Antonino, Sebastiano Vadalà, alla fine venne processato dal tribunale di Trebišov per il reato di estorsione. Secondo il pubblico ministero Peter Prokopovic, Vadalà aveva minacciato di ammazzare il direttore dell’azienda e aveva mimato con le mani l’atto di tagliargli la gola. Aveva minacciato il guidatore del trattore dicendo che «avrebbe ammazzato col suo fucile tutti quelli che lavorano sul suo campo e avrebbe dato fuoco al trattore». Tutto questo perché l’azienda coltivava un campo che gli italiani volevano per la loro attività. Le autorità non si sono mai preoccupate di appurare chi fossero i proprietari legali del terreno.

Insufficienza di prove.
Oltre alle testimonianze, l’azienda presentò come prova anche il «pacco speciale» per Jerad di cui si è detto sopra. Una perizia aveva dimostrato che tutte e dieci le pallottole erano adatte per sparare e che solo una persona in possesso di porto d’armi poteva possederle. Un video delle telecamere di sicurezza dell’azienda mostrava, secondo l’accusa, una visita di Vadalà in cui minacciava verbalmente Gerhard. Vadalà negava le accuse. Lui e il suo avvocato, Marek Švingál, sostennero in tribunale che al momento delle presunte minacce non era a Trebišov, ma a Michalovce. Il fatto era confermato da Švingál, dal contabile di Vadalà e da un altro italiano. Nonostante tutto, il tribunale distrettuale di Trebišov, e dopo anche il tribunale regione di Košice, hanno giudicato le prove insufficienti. L’anno scorso Sebastiano Vadalà è stato prosciolto da tutte le accuse.

Milan Petricko, giudice del tribunale distrettuale di Trebišov, ha scritto che «non è stato dimostrato che l’atto per cui l’imputato è stato rinviato a giudizio sia effettivamente avvenuto». Secondo il giudice, l’accusa era basata unicamente sulle deposizioni dei testimoni, e questo, a quanto pare, non era sufficiente per condannare Vadalà. Nella sentenza non veniva fatta parola della busta con la corona funebre, e neanche del filmato della telecamera. Il pubblico ministero ha presentato appello contro la decisione del tribunale, sostenendo che il giudice «ha valutato erroneamente la situazione probatoria e non ha tenuto conto della chiara evidenza del reato, basando la propria decisione su conclusioni pregiudiziali, soggettive e unilaterali».

Il legale dell’amministratore delegato dell’azienda, che era la vittima dell’estorsione, ha obbiettato che il tribunale ha considerato valida la testimonianza di Marek Švingál nonostante fosse il difensore dell’imputato nella fase preparatoria. Questo significa che aveva accesso agli atti e conosceva le prove raccolte dalla polizia.
Anche l’interrogatorio di Švingál era stata condotto in maniera non conforme alla legge. Vadalà aveva detto all’inquirente che non parlava né capiva lo slovacco, e quindi che non poteva aver minacciato la vittima. Ma questo era smentito da numerosi testimoni. Inoltre in un altro processo, due anni prima, Sebastiano Vadalà aveva dichiarato che «come cittadino della Repubblica italiana che vive da lungo tempo nella Repubblica slovacca comprendeva lo slovacco». Tuttavia, il tribunale regionale di Košice, guidato da Marek Dudík, ha respinto l’appello e confermato il proscioglimento dell’italiano.

La versione italiana del caso Bašternák.
Antonino Vadalà era direttamente coinvolto nel secondo processo, incentrato su una frode fiscale per presunte transazioni speculative relative a tre appartamenti del quartiere di Petržalka a Bratislava. Il processo ebbe inizio nel 2011 e si è concluso soltanto l’anno scorso. Proprietario originale dei tre appartamenti in questione era l’italiano Antonio Palombi, per la precisione la sua società Alto. Nel 2011, tuttavia, la proprietà iniziò a cambiare: nel giro di vari mesi gli appartamenti furono trasferiti prima alla società Genna e poi a un’altra ancora, la Av-Real. Vadalà lavorava per la prima, e all’epoca dei trasferimenti era amministratore della seconda. Tre anni dopo questo accordo, Palombi si presentò alla polizia affermando che Vadalà non gli aveva pagato i tre appartamenti di sua proprietà.

Secondo la deposizione raccolta dalla polizia, che abbiamo ottenuto in virtù della legge sul libero accesso all’informazione, in un primo tempo Palombi affermò che Vadalà lo aveva ingannato. Il settimanale Plus 7 dní dette notizia in questi termini del processo del 2015. La realtà, però, era assai diversa. Infatti, Palombi e Vadalà si erano accordati affinché il trasferimento di proprietà degli appartamenti avvenisse senza alcun pagamento, e che gli stessi alla fine tornassero di proprietà della Kannone, una società appartenente a entrambi. Scopo dell’accordo era far sì che la società Av-Real, il terzo anello della catena, avesse i requisiti atti ad avere il diritto di detrarre l’Iva per un importo di circa 80.000 euro.

Palombi ammise ciò davanti alla polizia, nella sua duplice veste di testimone e di parte lesa. «Disse che Antonino Vadalà gli aveva consigliato di trasferire gli appartamenti alla Av-Real passando tramite la Genna Ltd. perché quella società era attiva nel settore immobiliare e la Alto s.r.o. (a responsabilità limitata) non pagava l’Iva. La Genna avrebbe dovuto trasferire gli appartamenti a un prezzo notevolmente più alto. Così facendo, poiché l’Av-Real era tenuta a pagare l’Iva, la differenza sarebbe stata detratta al momento dell’acquisto», ha spiegato chi ha interrogato Palombi.

I rimborsi dell’Iva.
Palombi ha ripetuto più volte che il prezzo di 360.000 euro era soltanto immaginario. In realtà, gli appartamenti dovevano ritornare di sua proprietà. «L’indiziato ha detto che se otterrà 80.000 euro di Iva, trasferirà quegli appartamenti alla società Kannone s.r.o., di proprietà di entrambi. Così facendo, sarebbero tornati alla società di proprietà della parte lesa». Nella sua denuncia, Palombi scrisse che avrebbe anche dovuto ricevere una parte del rimborso dell’Iva. «L’indiziato gli disse che gli appartamenti sarebbero stati venduti alla società Genna. Egli spiegò che la Genna avrebbe presentato richiesta di rimborso dell’Iva, e che la metà dell’importo sarebbe andata a chi aveva presentato la denuncia», si legge nel rapporto della polizia. Vadalà smentì tutto davanti agli inquirenti: non sapeva nulla di quell’accordo e aveva acquistato gli appartamenti in modo regolare. A quel punto il procedimento penale fu interrotto e la pubblica accusa dichiarò che Palombi non aveva subito una frode, anche se entrambi avrebbero potuto contribuire a essa.

La pubblica accusa sottolineò che, se un reato era stato commesso, si trattava di un raggiro sui rimborsi dell’Iva e che la causa era trattata come un reato fiscale e di sgravi assicurativi. Così si legge testualmente: «La vera intenzione delle singole persone coinvolte nei progressivi trasferimenti rende impossibile determinare oggettivamente la loro possibile collaborazione, consenziente o meno, nella presunta evasione del privilegio fiscale quando è possibile aspettarsi che rendano testimonianze mirate a difendersi dalle eventuali accuse per altre attività criminali».

In un primo tempo, in tribunale – durante la discussione di una vertenza commerciale in corso dal dicembre 2014 – Palombi chiese la restituzione degli appartamenti. In ogni caso, come risulta dai registri del tribunale, nel febbraio scorso decise di non fare causa. La corte distrettuale Bratislava V interruppe i procedimenti a marzo, ma non riferì perché Palombi avesse cambiato idea dopo due anni. Palombi si rivolse alle autorità competenti dopo alcuni anni, quando si scoprì che Vadalà non gli aveva dato i soldi del rimborso dell’Iva, e non gli aveva neppure restituito gli appartamenti. In questo caso, le indagini non hanno ancora portato all’accusa formale di Antonino Vadalà. Le due società nel suo portafogli proprio di recente hanno dichiarato bancarotta, essendo indebitate col fisco per più di 100.000 euro.

Una grande famiglia italiana.
Antonino Vadalà e Carmine Cinnante non hanno agito da soli in Slovacchia. Nella regione orientale del paese – dopo essersi coordinati e organizzati per collaborare – operano quattro rappresentanti della famiglia italiana calabrese, la patria della ‘ndrangheta. Oltre ai Vadalà e ai Cinnante, ci sono anche le famiglie Roda e Catropove, la cui attività principale in Slovacchia è l’agricoltura. Queste famiglie possedevano, o possiedono ancora, decine di aziende. Le loro proprietà si stimano in decine di milioni di euro. Amministrano da centinaia a migliaia di ettari di terreno, per i quali ricevono sussidi di milioni di euro.

Proprio tra il 2015 e il 2016, le aziende di queste famiglie riuscirono a ottenere pagamenti diretti dall’Agenzia per le erogazioni in agricoltura per oltre otto milioni di euro, e altre centinaia di migliaia di euro le ricevettero come sovvenzioni del progetto. Che avessero diritto a questi pagamenti, però, è del tutto opinabile. Insieme ai suoi partner, Aktuality.sk ha documentato numerosi casi di violazione delle leggi vigenti. In un caso, l’azienda chiese pagamenti per una superficie di terreno di otto volte superiore a quello effettivamente coltivato. In un altro, chiese sovvenzioni per aree per le quali non versava alcun canone e che non aveva il diritto di usare.
Oltre a ciò, il legale di una di queste aziende italiane ha falsificato la decisione dell’Agenzia per le erogazioni in agricoltura per convincere la banca che presto avrebbe ricevuto il denaro.

Altri soldi pubblici furono riscossi sotto l’influenza degli italiani per centrali elettriche a biogas. Tra il 2012 e il 2017, per esempio, tre aziende della famiglia di Diego Roda hanno ricevuto pagamenti per 8,3 milioni di euro. E su questo non ci sono dubbi: nel 2015, infatti, l’Ufficio per la regolamentazione della rete (Urso, ente slovacco) li multò perché in un documento obbligatorio tra quelli presentati avevano calcolato in eccesso la quantità di energia prodotta dalla loro centrale a biogas.
L’ammontare dei sussidi, infatti, dipende dalla quantità dei sussidi prodotti.

La provenienza del denaro.
All’estero anche il riciclaggio di denaro sporco è una delle attività principali della ‘ndrangheta. Obiettivo di questa operazione è ottenere denaro pulito e fare affari in un modo che appaia legale. Tali operazioni possono prevedere l’uso di terze parti nel ruolo di fittizi proprietari d’azienda, scambi commerciali all’estero di beni dal prezzo artificialmente elevato, oppure pressioni sulla concorrenza.

Il clan Libri, con il quale Vadalà ha collaborato, è uno dei più influenti nella provincia di Reggio Calabria ed esercita buona parte della sua attività fuori dall’Italia. I suoi affari sono molteplici, perché questo clan è impegnato in particolare in affari finanziari internazionali. Nondimeno, non ci sono prove del fatto che qualcuna delle persone sopra citate abbia riciclato denaro sporco in Slovacchia. In ogni caso, ci sono dubbi sulla provenienza del denaro usato dalle famiglie italiane qui citate.
Dai documenti che abbiamo raccolto risulta evidente che una parte sostanziale del denaro in loro possesso arriva dall’Italia, il loro paese d’origine. Per esempio, il nome di Antonino Vadalà compare in numerose sentenze dei tribunali slovacchi, che provano che egli ricevette soldi dall’Italia, e si legge anche che i soldi gli furono dati in contanti perché così li pretese.

Traffico di cocaina.
Per esempio, i contanti dovevano essere utilizzati per comprare una cooperativa agricola in Slovacchia. Dato che non ricavavano alcun vantaggio dalla compravendita, gli italiani avevano chiesto indietro i soldi a Vadalà. Quest’ultimo in tribunale ha dichiarato di non dovere nulla agli italiani, e che la frase nella quale aveva affermato il contrario gli era stata fatta firmare sotto coercizione. Le aziende fondate dai fratelli Roda in Slovacchia negli anni ‘90 avevano ricevuto un’apprezzabile quantità di capitale azionario dalle società omonime della loro città natale di Condofuri in Italia. Si tratta delle aziende Co.Be.R. (Diego Roda) e Tra.Ce.R. (Antonio Roda), che hanno società sorelle omonime in Italia.

Nei loro resoconti annuali del periodo attorno all’inizio del millennio, le società slovacche riferiscono impegni e assistenza finanziaria nei confronti delle aziende in Italia, nonché il fatto che la loro intera produzione ritorna nel loro paese d’origine. Nel suo rendiconto finanziario la Co.Be.R dichiara addirittura di essere stata creata come un investimento estero con il 100 per cento del suo capitale in Italia. In Italia, Pietro Roda, fratello di Antonino e di Diego, funge da rappresentante dell’azienda di famiglia Tra.Ce.R., ed è coinvolto anche nel riciclaggio di denaro sporco per la sezione dell’ndrangheta denominata «El Dorado».

La polizia lo arrestò nel 2013 durante un’operazione contro il clan mafioso dei Gallicianò. In quell’occasione dovette rispondere delle accuse di associazione mafiosa (un reato specifico previsto dalla legge italiana) e riciclaggio di denaro sporco. Nel 2014, tuttavia, la Corte suprema lo ha assolto per insufficienza di prove.
Invece, nel 2017 i nomi di parenti di Antonino Vadalà sono comparsi in un mandato d’arresto per 18 affiliati accusati del contrabbando di centinaia di chilogrammi di cocaina in Europa per conto dell’ndrangheta. I Vadalà sono soltanto citati nel mandato d’arresto. Ma non si conoscono ancora i particolari del caso.

Nota: Questo articolo è privo di una conclusione perché il suo autore non ha potuto ultimarlo.

In memoria di Ján Kuciak, nostro collega e grande giornalista.

(Traduzione di Fabio Galimberti e Anna Bissanti)

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