Perché odiano Mimmo Lucano

Perché odiano Mimmo Lucano

Notizia tratta da: espresso

A Mimmo Lucano non si perdonano molte cose. Ma, forse, la colpa più grave che gli si imputa è avere travalicato il concetto rigido e autoritario della legalità, applicando un principio ben più rivoluzionario: la giustizia sociale. La legalità è il rispetto delle leggi, anche di quelle ingiuste. Per fare un esempio estremo, un caso limite: ai tempi di Mussolini stare dalla parte della legalità significava applicare e vigilare affinché venissero applicate le leggi razziali.

La legalità, quindi, non prevede alcun dubbio della coscienza. Si dà per scontato che una norma in quanto tale sia, non giusta o sbagliata, ma da rispettare. Scorrendo le pagine dell’ordinanza di custodia cautelare che ha portato agli arresti domiciliari Lucano e la compagna si hanno due certezze.

La prima: per il giudice che boccia l’ipotesi della procura, il sindaco di Riace non è capo di alcuna associazione di delinquenti; il primo cittadino non ha «arrecato alcun ingiusto vantaggio agli enti attuatori dei servizi», cioè alle cooperative che gestiscono i progetti Sprar, modelli di accoglienza diffusa, luoghi più umani rispetto ai grandi centri governativi, spesso al centro degli scandali di mafia e corruzione.

La seconda: Mimmo Lucano è ai domiciliari per aver affidato l’appalto del trasposto e raccolta rifiuti a due piccole coop locali, una delle quali provvede alla raccolta porta a porta con gli asini nelle strade del centro, e anche per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Lucano, secondo l’accusa, ha fatto carte false per orchestrare un finto ricongiungimento familiare tentando di organizzare un matrimonio combinato tra la sua compagna e il fratello di quest’ultima. Un fatto cristallizzato nelle intercettazioni. Nulla da dire.

Ma perché Lucano viola la legge? Perché travalica i confini della legalità? Per affermare il principio più largo di giustizia sociale. Lo fa disobbedendo. Al pari di quanto ha fatto Marco Cappato dei Radicali per affermare un altro principio di civiltà. Combinare un matrimonio per fini umanitari è lo strumento per salvare una donna dalla violenza della strada: «Joy … un’altra disperata, una ragazza nigeriana che a Napoli si prostituisce. Le ho detto, Joy sposati con qualcuno, come ha fatto Stella che si è sposata con Nazareno, li abbiamo sposati in un attimo, io ho azzerato tutta la burocrazia, ma l’ho fatto per aiutarla, ovviamente è una procedura forzata ma non per imbrogliare, per venire incontro ad una ragazza che è stata sfruttata e umiliata». Joy come altre sue coetanee ha ricevuto un doppio diniego dalla commissione territoriale che decide sul permesso umanitario. Il decreto Minniti ha abbassato la soglia dei dinieghi da tre a due. Joy è preoccupata, se la fermassero i poliziotti verrebbe messa in un centro e rimandata in Nigeria, nonostante sia vittima di tratta. Per Lucano, emerge dalla intercettazioni, questa è un ingiustizia. E dunque disobbedisce.

L’inchiesta dagli «errori grossolani», come scrive lo stesso giudice per le indagini preliminari di Locri – era attesa. Non deve stupire. Era prevedibile. Il martellamento mediatico è cominciato con il passato governo. Ha avuto inizio con la guerra alle Ong e ai salvataggi in mare. Soccorsi fatti passare come il frutto di accordi sistematici coi trafficanti. Ora, tocca all’accoglienza diffusa trasformata nello storytelling sovranista in business marcio e simbolo di tutti i mali. E poco importa se gli affari veri stanno da un’altra parte. Nei grandi centri di accoglienza gestiti da privati, per conto di prefetture e Viminale. Modelli di disintegrazione sociale, a cui Lucano ha sempre opposto un modello alternativo: micro strutture del territorio, gli Sprar, umane e più attente ai bisogni dei migranti.

Dicevamo delle Ong. Le prime a finire nel mirino sono state proprio le Organizzazioni non governative. Taxi del mare, così le ha definite più di qualche esponente politico che oggi governa questo Paese. Non che l’ex ministro Marco Minniti abbia fatto molto per arginare tale deriva, anzi. La decisione di far firmare alle Ong il codice di condotta ha segnato uno spartiacque. Il codice ha in qualche modo elevato i sospetti a certezze. Risultato: due inchieste della magistratura (a Palermo e Ragusa) mirate a verificare ipotetici accordi tra Ong e trafficanti libici sono state archiviate, un’altra, quella in corso a Trapani, ipotizza alcune irregolarità, ma allo scopo di salvare vite umane. Infine l’inchiesta di Catania: la prima operazione che ha avuto ampia copertura mediatica, fatta da meri indizi, è in via di archiviazione. Tasselli, però, che messi insieme uno in sequenza all’altro hanno avuto il risultato sperato da molti: le Ong, criminalizzate e ormai divenute feticcio del complotto ordito per invadere l’Europa, sono scomparse dal Mediterraneo.

La seconda fase si è aperta con l’arresto del sindaco di Riace, Mimmo Lucano. L’ideatore di un’accoglienza dal basso, diffusa, in grado di recuperare borghi altrimenti destinati alla desertificazione sociale. Lui non lo ha mai definito un modello, etichetta con cui però è conosciuto nel mondo. Già, nel mondo. Perché Lucano è finito su decine di testate internazionali. La rivista Fortune lo ha inserito nella classifica delle cinquanta persone più influenti al mondo insieme a Papa Francesco. Riace, in realtà, così come altri piccoli borghi che erano semi abbandonati in Calabria, è semplicemente un laboratorio, un esperimento di accoglienza differente. Contro cui scagliarsi è più facile vista l’assenza di coperture politiche e ministeriali. Per le strade del paese di Lucano non troverete colossi delle coop (bianche o rosse) a gestire centri d’accoglienza del Viminale. Non troverete clan mafiosi che per anni hanno approfittato della distrazione degli uffici prefettizi per accaparrarsi decine e decine di milioni dal ministero dell’Interno. No, non lo troverete perché Riace non è ciò che è stato il Centro per richiedenti asilo di Isola Capo Rizzuto.

Riace non è neppure Mineo, il campo profughi denominato dal ministro dell’Interno dell’epoca, il leghista Roberto Maroni, “Villaggio della solidarietà”. Più che della solidarietà si è rivelato essere un bancomat per pezzi grossi del sistema dell’accoglienza di scala. Questo sì un business a sei zeri.

Per questo stupisce l’ingenuità di alcuni membri dell’esecutivo che con enfasi hanno annunciato via social la fine della mangiatoia: «Zero fondi per Riace. Abbiamo deciso di ridurre a zero la speculazione sull’accoglienza».

Il tweet non è di Matteo Salvini, ma di Carlo Sibilia, sottosegretario 5 stelle al Viminale. Lo ha scritto in 140 caratteri la mattina in cui su Riace si è abbattuta l’inchiesta della procura di Locri, guidata da Luigi D’Alessio. Sibilia ha anche aggiunto: «Con il nostro governo finisce l’era del business con i migranti». I toni, come era prevedibile, ricalcano la propaganda del ministro dell’Interno Salvini e segnano il definitivo appiattimento dei grillini sulle tesi leghiste. Con l’arresto di Lucano, dunque, secondo gli annunci del governo grillo-leghista si chiude l’epoca delle vacche grasse per i signori dell’accoglienza. I fatti però smentiscono questa narrazione. Perché nel frattempo il vero business è da un’altra parte. Dista pochi chilometri da Riace. La prefettura di Crotone ha in ballo un appalto da 60 milioni per la gestione triennale del Cara di Isola Capo Rizzuto. Il centro per richiedenti asilo travolto dall’indagine sulla cosca Arena, la quale grazie alla confraternita della Misericordia ha incassato svariate decine di milioni di euro. L’idea portata avanti da Lucano, invece, costa decisamente meno. Con la somma stanziata dall’ufficio immigrazione del Viminale, a Riace avrebbero accolto migranti per 20 anni. A Isola Capo Rizzuto sarà sufficiente solo per tre.

Accostare Riace e il suo sindaco ai ras dell’accoglienza è dunque fuorviante. Anzi, è una vera e propria fake news. Innanzitutto perché secondo il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Locri l’ipotesi della procura sull’esistenza di un’associazione a delinquere non regge. Un reato che in un territorio come la Locride ha un suo peso specifico, che lo accosta a vicende ben più torbide e malefiche per il territorio. Per il pm, Lucano è un pericoloso capo banda che ha piegato le regole del sistema dell’accoglienza per incassare denari e arricchirsi. Ma per il giudice non è così. E ne spiega il motivo: «il diffuso malcostume emerso nel corso delle indagini non si è tradotto in alcuna delle ipotesi delittuose delineate dagli inquirenti. Il delitto di associazione a delinquere è tutt’altro che dimostrato; a ciò si aggiunga che i programmi perseguiti dagli indagati, per quanto sopra visto, non possono definirsi illeciti, né si sono tradotti in condotte penalmente rilevanti». Poi, sempre il giudice, aggiunge: «Alcun ingiusto vantaggio patrimoniale era infatti arrecato dal Lucano agli enti attuatori dei servizi. Non si comprende quindi come possa sostenersi che la Pubblica Amministrazione abbia sofferto un concreto pregiudizio patrimoniale a vantaggio di questi ultimi. A ciò si aggiunga che, per quanto in violazione della disciplina illustrata nella parte iniziale del provvedimento, i suddetti (migranti ndr) “lungo permanenti” ricevevano comunque un servizio dagli enti attuatori, che necessariamente doveva essere loro retribuito: questi non hanno dunque conseguito nessun indebito arricchimento».

Oltre alle presunte superficialità rilevate dal giudice però, c’è un’altra anomalia nella gestione del caso Riace. Si tratta del peso dato a tre diverse relazioni ispettive della prefettura. Le prime due compiute nel 2016, pur introducendo Riace come modello di integrazione, hanno rilevato irregolarità nella gestione dei fondi destinati ai progetti di accoglienza. Questi due rapporti hanno dato impulso all’inchiesta della procura di Locri. C’è però anche un terza relazione della prefettura di Reggio Calabria, anno 2017. Che ribalta l’esito delle due precedenti compiute nel 2016. Leggerla è sorprendente, proprio perché è scritta da funzionari dello Stato, oggi sottoposti al ministro Salvini. «Riace è così, è un microcosmo strano e composito, che ha inventato un modo per accogliere e investire sul proprio futuro», hanno scritto quattro vice prefetti della Repubblica nel rapporto ispettivo scritto dopo la visita del gennaio 2017.

Gli ispettori della prefettura proseguono: «Le ragioni che hanno spinto ad abbandonare il tono strettamente burocratico e trasmettere uno spaccato della vita quotidiana in Riace, risiedono nella avvertita necessità di raccontare la storia dell’immigrazione del borgo divenuto famoso prima per i Bronzi e poi per l’impegno del Sindaco Lucano. Questi è un uomo che ha dedicato all’accoglienza buona parte della propria vita, combattendo battaglie personali e raccogliendo riconoscimenti internazionali di assoluto prestigio. L’evolversi dell’esperienza ha comportato difficoltà ulteriori, probabilmente non previste e ha reso impossibile, presumibilmente, un controllo ferreo di tutte le attività svolte. Ciò ha evidenziato le pecche del sistema, individuate in precedenti relazioni, che denotano la necessità imprescindibile di attuare gli opportuni ed immediati mezzi correttivi. Auspicabilmente con una azione sinergica di supporto che possa permettere di mantenere e migliorare gli standard di efficienza, sicurezza e legalità che la normativa di settore richiede. Si ritiene, per concludere, che l’esperienza di Riace sia importante per la Calabria e segno distintivo di quelle buone pratiche che possono far parlare bene di questa Regione. Si precisa, peraltro, che il Sindaco Lucano ha sempre fornito una importante collaborazione a questa Prefettura in occasione degli sbarchi degli ultimi tempi, assicurando l’ospitalità che molti altri Centri della provincia avevano prima negato ed intervenendo spesso con propri mediatori linguistico-culturali in situazioni critiche, al medesimo rappresentate».

Tutt’altra storia rispetto alle pesanti accuse rivolte al sindaco Lucano dalla procura. «Ognuno ha il suo modo di lavorare. Lei forse scrive allo stesso modo dei suoi colleghi?», dice all’Espresso un’autorevole fonte della prefettura che ha lavorato all’ultima relazione. Insomma, Riace, e ciò che rappresenta, cambia a seconda delle lenti che utilizziamo per osservare le cose, i fenomeni umani, il mondo. La magistratura è giusto che verifichi se siano stati commessi reati. L’azione di disobbedienza civile si può processare. Ma l’idea da cui trae la spinta no.

Giovanni Tizian 

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