A futura memoria: le epidemie viste da Caulonia

A futura memoria: le epidemie viste da Caulonia

Di Ilario Ammendolia

Non è la prima , ne sarà l’ultima volta che saremo chiamati ad affrontare una epidemia.
Personalmente ho memoria storica , attraverso i racconti di mia nonna, dell’epidemia di colera del secondo Ottocento.


A quell’epoca, un suo giovane zio fece rientro da Napoli a piedi ma giunto alle porte di Caulonia centro, sebbene non infetto, gli fu sbarrato l’ingresso. Era proibito entrare ed uscire dal paese. L’amministrazione comunale del tempo avevano fatto costruire, in tempi record,  un capannone attrezzato con tanta paglia ed una cucina a legna,  in località “Tinari”.  Appena fuori dalle mura. Era lì che venivano tenuti  in quarantena  coloro che facevano ritorno in paese in tempo di colera. Del capannone ricordo i resti ,ben visibili fino alla fine degli anni Cinquanta.


Mia madre nel 1918 si ammalò di “spagnola”, una epidemia che nel mondo ha fatto centinaia di milioni di morti. La mancanza di igiene e di farmaci , gli assembramenti nelle chiese, nelle caserme, nelle trincee(eravamo ancora in guerra) contribuì alla straordinaria diffusione del virus.
Ci furono morti anche a Caulonia e così tanti che il clero(per come si legge nei verbali dei “capitoli) pensò di far alzare sensibilmente i costi di messe e funerali.  Restò l’adagio : “ S’indalevau facci belli a spagnola”.
Superammo – e bene- anche quella.
Così bene che negli anni successivi Caulonia conobbe  un sensibile aumento di popolazione, ed anche la produzione agricola ed artigianale aumentò sensibilmente.


Né la guerra, ne l’epidemia piegarono il nostro popolo.
Nel 1957 fui io, come tutti a casa mia,( e quasi tutti in paese)  ad ammalarmi di “asiatica”. Una nuova epidemia che, in Italia,  provocò decine di migliaia di morti. Tre milioni nel mondo.  Quell’anno le scuole (che io frequentavo a Roccella ) aprirono il 5 novembre. In paese, affrontammo l’epidemia con compostezza, senza scene di panico, senza assalti ai negozi, senza sindrome da fine del mondo. Preghiere tante ma i farmaci scarseggiavano così come  l’igiene e  lo stesso cibo non era adeguato.


Gli infettati in paese  furono tantissimi ma i morti pochi e quasi tutti anziani. Pensando all’epidemia di “asiatica” che ho vissuto direttamente mi ha fatto sempre ridere la teoria del “familismo amorale” di cui saremmo affetti noi meridionali. Ricordo la grande solidarietà non solo in famiglia (dove gli adulti dimostravano così tanto amore che non ci sono parole per descriverlo)  ma anche  tra parenti, con i vicini , i “compari”, i conoscenti. La “ruga” si prendeva cura degli ammalati soli.
Gli eroi erano tanti!


Ne ricordo uno. Il medico di famiglia ,  Romolo Prota.. Una specie di “sentinella” che senza armi non lasciava la postazione per un solo minuto. Arrivava in casa mia quando tutti eravamo infetti. La sua non era mai una visita fugace. Prendeva caffè,  metteva a bollire la siringa e iniziava a discuteva di tutto. Come la malattia non ci fosse. Poi ascoltava le spalle di ogni ammalato, guardava la gola, tambureggiava sul ventre,  guardava negli occhi. Quando qualcosa non andava si faceva lasciare la chiave di casa alla porte ed arrivava in piena notte senza che nessuno glielo chiedesse.
E quanto prendeva per tale servizio a domicilio h.24?
Neanche un soldo. Incredibile!  Neanche una sola lira. Anzi siccome riceveva in regalo qualche  uovo, ricotta, formaggi e verdura , fungeva  da calmieratore portando il superfluo alle famiglia più bisognose. E non credo fosse l’unico medico  a comportarsi con tanto scrupolo e generosità.
Perché la comunità deve perdere la memoria di tale immenso patrimonio di umanità ?
L’Asiatica non ci piegò.


Riprendemmo le scuole ed il lavoro . Allora ognuno si creava il lavoro. Basti pensare che in una sola piccola piazza del paese, ancora dopo l’asiatica, lavorano tre bravissimi sarti, tre calzolai, due barbieri, un rivenditore di “gragni” (terracotta) un carbonaio, un “landaio”, una rivendita stagionale di vino paesano, una falegnameria , un fabbro ferraio, tre mercerie, una cantina ed un bar. E poi c’era un frantoio. Simbolo d’un paese vivo. Tant’è che un anno prima alla stazione ferroviaria di Marina si costruì il secondo binario per i vagoni di arance che partivano verso il Nord.


Purtroppo dove non riuscì  l’epidemia arrivò l’emigrazione di massa e la miopia dei governi e delle classi dirigenti. Ma questo è un altro discorso.
Mi son voluto soffermare sulle esperienze che ho vissuto quasi per dire” ricordate la vostra semenza”. Compostezza, serietà, solidarietà, generosità sono istate per secoli le caratteristiche della nostra gente. Non smarriamole . Anzi anche in questa circostanza ,  “ ex malo bonum” , nel senso che il male, dopo l’ubriacatura di sazietà e cattiveria,  può stimolarci a “ritornare umani”. E non sarebbe poca cosa.

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