Non guardarmi mai più

Non guardarmi mai più

Guardami in faccia quando ti parlo. Girati. Guardami in faccia quando ti parlo. Non fa niente se le domande non ti piacciono. Mica mi arrogo la pretesa di avere risposte. Ma il diritto di farti qualche domande ce l’ho. E la domanda è sempre lei: “Che cosa ci rimane?”. E la risposta è sempre la stessa, di quelle che annoiano anche i migliori. E la risposta è: “Niente”. Mi sembra un buon punto di partenza. Ma non fare lo stupido. E guardami in faccia quando parliamo. Magari potrebbe andar così bene che da qui alla fine ndi facimu ziti.

Ricominciamo dal “niente” che rimarrebbe nel caso in cui la tua risposta, la tua noiosa risposta, fosse anche corretta. Il “niente” di cui parli è una misura egoista e sbrigativa. Non stiamo parlando cosa resta delle tue carni. Non stiamo parliamo di cosa resta del tuo guardaroba. La domanda non si pone. La risposta è l’illusione che sia previsto un bel premio per i pronomi personali. Poi il tracobetto: TU, persona, non puoi nasconderti. Credi davvero che non rimanga niente? Mi stai dicendo di essere già morto? Eppure, ora che mi guardi in faccia, di te non direi proprio che sei morto.
Le fotografie; le tue scarpe; le bottiglie di birra svuotate senza nemmeno contarle più dopo una certa; le ciocche di capelli di quella volta che ti sei rasato a zero; il dente che ti è caduto quando il tuo migliore amico, ubriaco, ti ha dato una testata dritta in bocca. Non stiamo parlando di queste cose. E nemmeno di quel servizio di piatti che uno alla volta ci siamo lanciati contro. Non stiamo parlando di cose. Pensaci. Pensa a cosa hai provato riguardando quelle fotografie stampate mentre le toccavi. Pensa alla sensazione di benessere quando hai deciso di smettere di contare tutte quelle cazzo di birre di quella volta. Pensa a quel volto, il tuo, completamente glabro per la prima volta. Pensa al dolore che mentre sputavi quel dente non ti ha distolto dalla volontà di abbracciare il tuo migliore mentre ubriachi stavate per crollare a terra.

Che cosa ci rimane se ci facciamo caso? Non addebitarmi filosofie che non mi appartengono perché non ho studiato abbastanza per farle mie. Ho solo delle sensazioni. Guardami. Non ti sto rompendo i coglioni. Stiamo ragionando su un maledetto pronome personale e su tutto quanto questo genere di attenzioni riescano a definire chi noi siamo. Da vivi. Maledetto il culto della morte che punta ad affrancarci da responsabilità che ci accorgiamo sempre troppo tardi di dover sopportare.

L’allenamento fisico è una pratica salutista che sembra aver preso piede solo per fare in modo che quel piede possa darti del calci nel culo sempre più forte. L’allenamento psichico è il pozzo nero della volontà di imparare a nuotare. In quelle acque i tuoi soldi non contano, il tuo yacht è affondato per mano di un te bambino che ci gioca come quando da piccolo eri nella vasca, mentre tua madre ti insaponava e tu credevi di diventare capitano di un vascello. La deriva di cui non tenevi conto era il porto sicuro. Una struttura ed una sovrastruttura. Una struttura ed una sovrastruttura. L’immagine più immediata ed immediatamente dopo l’immagine più lontana. Il campo di azione di una piroetta in cui respiri a 360 gradi. Non ti ritengo capace di non immedesimarti in te stesso. Non puoi fingere. Puoi non guardarmi per qualche secondo. Mi sta bene.

Adesso guardami. Non mi riconosci più? Non fa niente. Non sono il tuo specchio. Non sono un dispetto. Sei solo al cospetto di ciò che il tuo cervello tende a definire attraverso degli impulsi che ti fanno credere che di ciò che hai davanti non rimanga niente. I rimandi li restituiremo ai vermi. Ma non stiamo parlando dei vermi. Non siamo ad una pesca magica nonostante sarebbe comodo immaginare di scegliere il punto di visuale migliore, sullo scoglio a punta proprio ai bordi del pozzo nero. Ti piace pensare che sia giusto così? Bene. Facciamolo. Prendi la tua canna da pesca e guarda il moto delle correnti. Guarda lì, dove l’acqua ribolle. Lì sotto i fantasmi stanno banchettando ed aspettano di abboccare all’amo, bramamo la tua esca. Aspettano te. Ti aspettano da prima che iniziassimo a parlare. Prono sulla punta puoi anche lanciare qualche pietra per sparpagliarli. Ma la fame li porterà al volere di quel tarlo. È la linfa vitale di una corrente che non smette di scorrere. Non ho detto sangue, me ne guarderei bene. Quello può essere impuro per causa indipendenti dalla nostra volontà. Quella corrente sei tu, che ti piaccia o meno quello che vedi. In quella corrente ci sei tu. Caddara di te stesso in una terra infuocata dal sole che non fa altro che raccogliere le memorie di ogni singolo dettaglio nascosto tra le immagini che inevitabilmente dimenticheremo sin dei nostri secondi di presenza. Concedi loro la confidenza necessaria per bussare sullo scoglio a punta, concedigli di scherzarti tirando su e giù la lenza, su e giù si pensa, e la parvenza smette si esserlo: diventa concretezza. Non guardare me. Pensa che è tutto lì in fondo. Sanno nuotare tutti. Sanno nuotare bene. Ficcati i tuoi soldi nel culo. Fa che non rimanga l’incazzatura di quella volta in cui hai pensato che non sarebbero bastati. Bastardi. Bastioni. Bestioni che non è che non sarebbero bastati, è solo che non sarebbero serviti. Cosa ti sarebbe rimasto se ne avessi avuti abbastanza. Nemmeno l’incazzatura di non averli. Ci stiamo girando intorno. Bene. Fai una giravolta. Fatti un’altra volta. Mi piace saperti squalo mentre concentrico ti avvicini al ribollire delle acque. Abbi fame. Abbi sete. Non guardarmi mai più. Concentrati. Vaffanculo squalo, è tutto lì. Ribolle. Rimane tutto lì anche quando non ci facciamo attenzione. Anche quando non ci siamo. Anche quando dimentichiamo. Altro che “niente”. Non guardarmi mai più. E guardati in faccia quando ti parli.

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