Riflessioni di una cauloniese al tempo del Coronavirus

Riflessioni di una cauloniese al tempo del Coronavirus

di Teresa Candido

E’ POSITIVO. NO, E’ NEGATIVO!NO, E’ POSITIVO. NO, E’ NEGATIVOOO! Le notizie si rincorrono in queste ore di tensione. Notizie al tempo stesso contrastanti e relative al risultato del tampone effettuato ad una nostra concittadina che, presumibilmente, è totalmente ignara del caos che la sua situazione patologica sta scatenando. Poteva immaginarsi costei che un giorno il suo nome sarebbe apparso con tanta velocità sui telefoni e sui pc di tutta la gente del suo comprensorio e ciò per un fatto per un evento negativo per il quale lei non avrebbe avuto nessuna colpa? Io la immagino questa signora abitante di una contrada dove ancora le tradizioni vengono tramandate di generazione in generazione. La immagino che impasta e sforna il pane, che prepara i salumi, che raccoglie erbe selvatiche. La immagino coltivare il suo orticello e sperare con pazienza che la terra produca i suoi frutti .

Le immagino così le donne che vivono lontano dai grandi centri abitati. Donne di altri tempi che, nonostante l’età avanzata, non riescono a rinunciare ai loro riti. La immagino ora sofferente in un letto di ospedale intenta a meditare sulla sua incerta sorte. La immagino che dice il rosario, affidandosi alla Madonna di Crochi, unica ancora di salvezza per la gente di quelle contrade. Schiva, riservata e inconsapevole di essere oggetto dei discorsi, delle polemiche e dell’interesse di una intera comunità che la considera quasi colpevole. Colpevole di essersi ammalata! Come se lei se lo fosse andato a cercare. Non riusciamo più a metterci nei panni degli altri, privi di sensibilità spariamo a raffica contro tutto e tutti.

Non oso immaginare la sofferenza dei figli che al dolore e al senso di impotenza per la malattia e la sorte incerta della madre vedono aggiungersi il dolore per la gogna mediatica a cui tutti loro sono stati sottoposti. Non è mia intenzione accusare o puntare l’indice contro qualcuno in particolare né tanto meno escludere me stessa da queste considerazioni, sto semplicemente cercando di analizzare la situazione sotto tutti i punti di vista.

Ritornando al discorso di partenza, Caulonia oggi tira un sospiro di sollievo. La tanto attesa risposta dell’Ospedale Spallanzani, proprio quella che avrebbe finalmente fatto chiarezza sull’esito del tampone, ha decretato che la nostra concittadina non è affetta da COVID – 19! Tutti felici per lei, ma soprattutto per noi stessi, perché alla fine di questo si tratta. Ho come l’impressione che nella locride si stia cercando a tutti i costi di trovare un contagiato, un untore, un motivo valido che giustifichi il nostro stare a casa, la nostra limitata libertà. Se proprio devo essere sincera, in questo momento, vista la situazione che stiamo vivendo, preferisco più stare casa perché uscire anche solo per fare la spesa si è trasformato in uno strazio. Facce intrise di tristezza e diffidenza. Svaniti i sorrisi che accompagnavano ogni saluto, siamo ormai diventati tutti possibili untori. Ci si allontana l’uno dall’altro (e non solo di un metro e mezzo) e mentalmente ci si colpevolizza a vicenda con l’aria di chi vorrebbe probabilmente chiedere “Tu perché sei uscito?” . Noi invece ci sentiamo nel giusto (magari non uscivamo da tre giorni e dovevamo comprare il pane o la frutta, prodotti che preferiamo consumare freschi). Siamo sempre noi quelli giusti e gli altri sbagliati. Noi quei giusti che gli altri considerano sbagliati. Noi che abbiamo bisogno sempre di un nemico da sconfiggere. Prima era l’emigrante ( che in quanto meridionali ci ha pure in certo senso salvati perché , apparentemente, non siamo più noi terroni l’oggetto dell’odio di Salvini e della sua Lega ), poi i cinesi ( untori per eccellenza), in seguito i meridionali che tornavano a casa (che volendo, si sarebbero potuti bloccare impedendo loro di raggiungere il sud), oggi sono i runners ( colpevoli di uscire incuranti degli altri che stanno a casa). Questa dei runners, a mio avviso, è una situazione che andrebbe valutata di volta in volta perché non vedo cosa faccia di male una persona che corra da sola in una strada solitaria di campagna. E che dire poi delle le persone che incontriamo al supermercato? Nemici anche loro perché vorremmo essere i soli ad uscire per fare la spesa.

Ma da quando ci siamo imbruttiti così? Non riesco a credere che lo siamo sempre stati.

Se c’è una cosa che mi è sempre piaciuta dei piccoli paesi è che quando esci tutti sanno chi sei, e ti salutano, caratteristica che ho apprezzato maggiormente quando, per motivi di studio, sono andata a vivere a Messina. Nonostante le probabilità di incontrare una faccia conosciuta erano abbastanza alte, prima di uscire da sola mi accertavo di avere in borsa o in tasca il documento di identità . “E se mi succede qualcosa? Qui non mi conosce nessuno!”, mi dicevo camminando per la strada e rimpiangendo il mio piccolo paese, laddove se mi fosse successo qualcosa, quasi sicuramente mia mamma l’avrebbe saputo molto tempo prima dell’arrivo dell’ambulanza. Mi mancava quell’atmosfera paesana che si avverte solo nei piccoli centri urbani, quella che ti fa sentire parte integrante di una comunità. Mi mancava e lo consideravo un valore da tramandare. Un valore che in questi giorni pare abbiamo dimenticato. Siamo diventati stranieri nel nostro stesso paese, evitiamo di salutarci perché temiamo di accorciare le distanze. “E se lo saluto e poi si avvicina?” , ci ripetiamo mentalmente. Il timore e la paura hanno preso il sopravvento. Stiamo distruggendo la bellezza degli sguardi, degli incontri. Eppure gli occhi sanno sorridere anche dietro una mascherina. Siamo ancora vivi, momentaneamente sani, possiamo ancora incontrarci (con le dovute distanze) anche solo per fare la spesa. Cosa ci costa regalare un sorriso? Regaliamo un sorriso e finiamola di apparire come tanti robot. Un dolore può unire o separare, la scelta dipende da noi. Cerchiamo di fare in modo che ci unisca. Siamo tutti sulla stessa barca, RESTIAMO A CASA, ma soprattutto RESTIAMO UMANI.

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