Tessere il non essere

Tessere il non essere

Sopra la panca la vita arranca; forse, se manca la panca, crepa. Era tutto nella mia testa. La mia testa era nella cella frigorifera. La cella frigorifera conteneva anche altre teste. Tra queste, tre teste mi assomigliavano tremendamente ma avevano fatto da cavia per barbieri diversi. Le altre mi assomigliavano parecchio. Ero io, pronto ad una serie di avvenimenti spiacevoli: una era senza orecchio destro, nel caso in cui avessi dovuto interpretare la vittima di un rapimento; una sorrideva come se quel giorno fosse il giorno del mio compleanno, che odio; una aveva lo sguardo perso nel vuoto del tempo in cui ricordavo bene di essere vissuto.

Un uomo canuto riponeva con cura le teste al proprio posto ogni fine giornata. Mi assomigliava anche lui, come si assomigliano due tizi che non si assomigliano ma hanno gli stessi modi, lo stesso incedere, lo stesso portamento. L’imbastardimento delle mode passeggere gli permetteva di nascondersi tra i viaggiatori sotto una folta barba bianca. Babau Natale mi regalava, un giorno alla volta, qualcosa che poi si prendeva indietro per custodirlo gelosamente: liberava in coro i ricordi dalle teste per trascriverli dentro un libro al quale le teste raccontavano un’altra lunga giornata pregna della capacità di essere vissuta. C’erano le date ma erano corrotte. La codifica era affidata alla chiave di lettura che solo lui avrebbe potuto usare per aprire un discorso senza l’impellenza di chiudersi alla possibilità di lasciarlo in sospeso. Pazientai per due anni. Sopra la panca la vita arranca, sotto la panca qualcuno è creta. Non mi sto davanti e non mi sto dietro. Tendenzialmente sono portato ad affiancarmi e ad ogni sdoppiamento affiancarmi e ad ogni sdoppiamento affiancarmi. Stroboscopico solo quando scoppio di salute. Le salite e le discese sono un punto panoramico in cui una svista può costarti carissima. Non ho confidenza con le pianure. Mai avuta, faccio ammenda. La faccenda della reprimenda mi abbona millenni di malcelate confidenze e dannazioni che non avrebbero meritato questo evolversi. Allo sciogliersi dei ghiacci saremmo rimasti a bocca aperta. Io e tutte le teste che come me avevano puntato ancora forte sullo stupore. La forza accusatoria che da una parte spargeva sangue innocente come diversivo, dall’altra scendeva a patti con l’incredulità di oliare gli ingranaggi del meccanismo sociale con le belle parole. Mi vesto del fresco del bucato che, caldo del sole, ha centrato il nocciolo dei dubbi che una mietitrebbia raccoglie su campi immensi per le zuppe di cui si nutrono le teste. Babau ci fa l’aeroplanino e ghigna quando singhiozziamo.

Nell’era dei bagordi essere balordi non ti spinge ai bordi della società ma ti ingloba. Il senso di appartenenza si apparta con la più bella del creato e le spalma la lingua giù in gola prima di rimanerne vittima. “Houston, we had a problem”. Nel lemma della criticità, riusciamo a ripulirci la coscienza senza saperne granché. Fa bene chi dice che la ragione è una prigione. Fa bene chi ricorda che l’obiezione è un diritto. Fa male chi si impantana in quello che Babau chiama “il grande equivoco della democrazia”: il fatto che tu abbia il sacrosanto diritto di esprimere il tuo pensiero, non significa che il tuo pensiero non possa essere una stronzata. Banchettano i saggi dell’accozzaglia; si grattano la pancia, la nuca e il cuore gozzovigliando tra i resti umani di battaglie parse già vinte ma perse per un punto solo. Un punto basta. E se decidi di giocare a quel gioco vuol dire che ne hai accettato le regole. E se non conosci le regole ma stavi andando bene, vuol dire che magari hai rischiato di vincere ma hai perso. Verso quel che resta del sangue della contesa su una tavolozza per pittori, umetto la lingua delle teste che deglutiscono in favore della glottide: vibrano le corde vocali.

Morire, sognare. L’ingerenza della presenza, la parvenza della consuetudine e la conseguenza dell’attitudine registrano tutto. Essere il malessere non è un problema. Per proteggere e accudire. E poi, dormire senza forse.

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