La felicità non assiste

La felicità non assiste

Negli anni in cui deresposabilizzazione aveva trovato terreno fertile, annaffiavo con il mio sangue il piccolo orto che tenevo sul balcone. L’amore per la terra ripaga se lo sfrutti. Il mio terzo dito l’avevano mutilato qualche tempo prima, come per tutti gli esseri umani, ad entrambe le mani. L’ipotesi di un ricongiungimento con il savoir faire era stato foriero di decisioni che apparivano necessarie ai governatori imposti dall’Istituto Nazionale delle Buone Maniere.

Nascondevano la sporcizia sotto tappeti di dita mozzate, simbolo della rinascita di una morale che la libertà d’espressione aveva definito inopportune.

Le lacune della civiltà moderna erano state annacquate in botti di legno che venivano offerte gratuitamente nell’ora del rinfresco. “Darla a bere” era la concretezza di chi aveva smesso di promettere cose che non avrebbe potuto mantenere.

Nei toni e nei modi di una regolarità comportamentale, sguazzavano denti aguzzi e paletti di frassino. Sarebbe bastato un attimo per mettere tutto in discussione, ma chi lo aveva questo attimo? Le lancette ci rincorrevano, noi stirpe del Bianconiglio destinata a centellinare le nostre risorse senza comprenderne il potenziale. Ad ogni posto di blocco un “mani in alto!”. Ad ogni “mani in alto!” rispondevano otto dita. La vita si fermava solo per i controlli, che definivano “di routine” e che vendevano come unica possibilità per tastare il polso a quell’evoluzionismo che in passato ci aveva visto troppo curiosi.

Gli invidiosi erano diventati lamentosi. I riottosi erano diventati acrimoniosi. In simbiosi con i lacci più di quanto non lo fossimo con le scarpe, muovevamo i nostri passi entro percorsi prestabiliti. Gli elefanti nelle cristallerie venivano abbattuti in pubblica piazza e donati in pasto ai meno abbienti. I collezionisti dei zanne d’avorio si sfregavano le mani. Gli incidenti di percorso venivano affrontati con la certezza che la buona fede avrebbe resto giustizia a entrambe le parti in causa. L’effetto soporifero, impalpabile, si era impossessato del dinamismo proprio di un tempo precedente in cui l’uomo, rivendicando la propria natura di uomo, non si soffermava su quanto accaduto ma ragionava sui motivi che avevano condotto all’avvenimento.

In culo alle nostalgie da vecchio, annaffiavo con il mio sangue il piccolo orto che tenevo sul balcone. Il sole in cielo era caldissimo a giorni alterni. Eppure sapevo che le pari opportunità, come metodo di riappropriazione e tolleranza di ogni modo di intendere il trascorrere dei giorni, nascondevano l’ipocrisia propria di chi tende alla presunzione di poter equiparare ciò che la natura ha differenziato per completezza. Crude carni come le nostre avrebbero dovuto contenere esclusivamente pensieri ben cotti. Per chi, disattendendo le poche normative vigenti, li lasciava bruciare scattavano sanzioni comminate per appartenenza. L’idea di porre fine a quella parvenza di normalità era l’unica idea plausibile dei membri del Laboratorio della Felicità. La verità non sarebbe bastata a dar credito al progetto. Gli sforzi dell’architetto di aggettivi erano rivolti alla destrutturazione e ristrutturazione del complesso castello di carte buone da giocare. La coperta corta sarebbe dovuta bastare e sarebbe bastata.

L’ipotesi basata sul concetto secondo il quale il pollice opponibile ci aveva differenziato dagli altri esseri viventi, andava cancellata dalla teoria secondo la quale la vera differenza stava nell’uso del medio oppositore.
La fascinazione per le parole era la droga di questi tempi. Croce e primizia per fameliche materie grigie e dislessici ammiratori segreti delle lettere. La contusione da confusione era lenita da creme inodori capaci di limitare i lividi del trauma. Nessuna faida era apparentemente in atto.

Delle consapevolezze sono piene le fosse e anche così non fosse sarebbe anche quella una consapevolezza. L’allegrezza che rasserenava gli aventi diritto alla vita sbatteva il muso contro il muro dell’insipienza delle dentiere d’ordinanza. Dalla mia stanza si vede il mare. Ne abbiamo dissalato una quantità sufficiente per ingollare le pillole prescritte dall’Istituto per l’Accettazione del Bene. Ma la felicità non assiste e tra la sensazione di una montatura dal sapor della plastica e l’indecenza della nudità del reale, non avrebbe assistito mai. Insistere, coesistere, consistere. Il coro degli scardinatori del miserere ripudiava la propria generazione e la propria genealogia. L’egemonia sembrava non rappresentare un problema perché su scala mondiale si presentava sotto forma di accondiscendenza. Mai torto fu più grave. E mentre annaffiavo con il mio sangue il piccolo orto che tenevo sul balcone mi accorsi, sorridendomi, che negli anni in cui la deresponsabilizzazione aveva trovato terreno fertile, sul mio balcone coltivavo l’albero delle Terze Dita.

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