Chi non muore

Chi non muore

Lo sai bene anche tu come funzionano queste cose: chi non muore si risente e viene a rompere i coglioni in vita. Puntuale, impettito, navigatore delle acque chete in cui si concede il lusso di uno yacht superaccessoriato, si concede bottiglie che non sa apprezzare e propina musica di merda che spara a palla. Che poi lo si paghi noi è una storia vecchia come quella del cocco di mamma che potrà pure aver compito 69 anni ma tale è e tale resta nella strenua difesa dell’essere chi non sarà mai in grado di essere.

Cara, prestami la tua pazienza ché ho perduto, tra le indecisioni, la consapevolezza del mio solidale equo. Il moto perpetuo s’inerpica tra le sinapsi. La corteccia cerebrale è sotto scacco di piromani dal culo freddo e nani da caminetti per i quali Babbo Natale, saltando la ricorrenza dell’anno della peste, è il colpevole del diffondersi di epifanie di frustrazione sociale. Lo sai bene come funzionano queste cose: chi non muore si riaccende e scaccia il pensiero della morte, come io faccio con le mosche in estate. Battezzate del sole e del sale, delle avversità rimangono tracce indelebili. Del fare e del dire si riempiono i cocktail che accompagnano tramonti inimmaginabili ai quali è vietato voltare le spalle. Dalle piccole incongruenze germogliano grandi considerazioni. Più di ieri e meno di domani, mi domando se siano tutti così attenti alla precisione con la quale è possibile seguire l’inabissarsi di quella palla infuocata tra l’arancio bluviolaceo del disastroso trascorrere del tempo. Il corpo che riemerge dalle acque è vivo. Carponi mi accorgo di una pietra piatta e la faccio saltare e saltare. Quale reale intenzione se non quella della sfida con la gravità che ci tiene giù, che ci costringe qui, che ci vive proprio adesso? Mi addolora sapermi meteora ma mi rincuora sapermi essere. Hai detto niente! L’odore del nulla che assalta le narici va allontanato con la puzza di vita. La malora è la rabbia e la gabbia.

Ti sei mai chiesto perché quello del dubbio sia un beneficio? Forse sbagliamo. Forse in quel momento in cui ci accingiamo a uscire di casa non diamo peso al fatto che potremmo anche non tornarci mai più. La parvenza di normalità si impolvera sotto quei bellissimi tappeti in salotto, ammuffiscono le carni che distrattamente diamo in pasto allo specchio prima di dare quel giro di chiave che ci fa sentire dentro, che ci fa sentire al sicuro. Morituro mi saluto, immaturo non mi rispondo. È uscendo che sfondo porte aperte, che pago da bere a chi racconto che “era proprio quello che mi ci voleva”. Ma quello che c’era allo specchio è rimasto intrappolato, chiuso lì, guarda una stanza vuota e chiama sconosciuti per nome e segna presenze e assenze. Potrebbe denunciarmi da un momento all’altro se solo non mi amasse così tanto da non pensare nemmeno alla possibilità di farlo. Io no, io me ne fotto di lui e la prossima volta i giri di chiave saranno due. Vaffanculo tu e vaffanculo io.

Dio ha smesso di chiedere preghiere, vuole solo i soldi per pagare un coro di cuori puri che le preghiere le sanno dire bene. Lo sai bene anche tu come funzionano queste cose: la pausa di riflessione è più un vuoto d’aria che lo specchio del pensiero. Siamo zero e sottozero, la causa scatenante ha l’effetto soporifero del ronzio della resistenza di un frigorifero. Lucifero se ne sta a guardare, in silenzio, perché tanto siamo così bravi e irriconoscenti da non aver bisogno del suo aiuto. Rifiuto l’affare e vago tra gli abitanti di questo luogo solo per l’effetto coercitivo dell’iscrizione al registro catastale. Il rituale della socialità a tutti i costi ha un taccuino in cui appunta i miei debiti dal millenovecentosettantotto. Vomito in dialetto. Mi sento in difetto ma è l’eccesso in cui svelo lo stato dei fatti: siamo pazzi da slegare. Chi ci gira intorno gioca il gioco dello squalo, gioca con te mentre sanguini e spalanca le fauci in un sorriso pronto ad azzannarti. Il calo di tensione è strategico e, anche se ti pare anacronistico, il fronte libertario saprà leggere tra il ricompattarsi delle fila e la trafila per l’accettazione della proposta.

Lo sai bene anche tu come funzionano queste cose: non è vero che chi muore ha tutto da perdere, pensa a chi non vive. Non è vero che chiusa una porta si apre un portone, a meno che tu non abbia qualche candelotto di dinamite nascosto tra gli scheletri nell’armadio. Non è vero che sono sempre i migliori ad andarsene, a volte chi resta saluta affranto ma tira un sospiro di sollievo, alza lo sguardo e punta avanti. Nel testa a testa in cui guardo il muro bianco davanti a me, anch’io mi sento osservato. Aspetto che si sgretoli davanti ai miei occhi neri. È quello che si aspetta anche lui da me. Chissà se poi è vera quella cosa che chi non muore si ravvede…

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