Da così tanto tempo che non ricordo quando

Da così tanto tempo che non ricordo quando

Probabilmente ci nacqui. Modestamente ci nacqui. Maldestramente unii i puntini per mappare la conoscenza a me propria e iniziai a lastricare di giallo vomito i ciottoli verso la mia El Dorado. Mi ci immersi. I lavori importanti, le grandi opere, sono fatte così: ti ci immergi tenendo fuori giusto la bocca per respirare e prender fiato quando senti arrivare l’onda più grossa di te, l’onda giusta al momento sbagliato. Impariamo a nuotare per sopravvivenza e non farlo è solo una scusa di chi pensa di togliersi di mezzo con il beneficio dello sgravio della colpa.

Distogliere il pensiero dall’analisi non ci aiuterà a fregare i medici dell’autopsia. Nessuna amnistia per i patiti delle iperboli. Il fervore dello scoppiar di un tizzone, chi è brace acconsente. D’altro canto quale alternativa mi si propone? Dei conati apprezzo l’urgenza super partes che ne rivendica l’identità che gli umanisti definirebbero originaria. Breve per dimenticare, mi canto una nenia e mi adduormo.

Uno stormo di zanzare si prenderà cura delle mie notti estive, le portano fuori dal tempo e le trasformano in ricordi di cui un giorno ti parlerò. Non ho più l’età per andarci piano, non ho più il fisico per andarci sano, non ho più lo stacco per andarci lontano. Appunto tutto e ne faccio una pallottola di carta, ne modello il calibro e lo adatto ai semiautomatismi di una puntata in cui miro e faccio fuoco.

Tra poco avvertirai un bruciore, ti ho preso proprio lì. E se, come puoi fingere, non lo senti significa che sei morto pure tu. Ne fui felice ma non ricordo quanto. L’antropologia non si sfida con una coppia di quattro, ne abbiamo già parlato. Dei bluff sono quasi piene le fosse, ogni tanto almeno uno tiene. Un uomo perbene mi sorride e alza il suo calice, ricambio e cieco da un occhio sembro ammiccare. Fraintende. Non è la prima volta che mi capita di rimestare nell’equivocabilità alla quale la natura bastarda mi ha costretto. Avere un tetto sopra la testa non significa essere al sicuro. Avere una testa sotto al tetto garantisce un margine di azione più ampio. Il passatempo di contare gli scempi e gli scemi che porto ad esempio mi rallegra. Ne sono felice ma non ricordo quanto.

La sfida, il guanto, l’accettazione di un sogno infranto, a volte qualche vanto ma mai nessun rimpianto. Se tanto mi dà tanto comprerò un violino rumeno e proverò ad ascoltarlo. Puoi pensarlo, puoi farlo, puoi aiutarlo ad imparare la tua lingua mentre impari la sua, ché la lesa maestà, nel tuo regno, merita l’amnistia. Ho una stella sulla fronte: la voglia di fuggire di mia madre, mentre incita si asciugava il sudore nell’afa di quel giugno del ’78. “Più che afa, afantoculu”.

Se non si ha chiaro il concetto si rischia l’imbarcata e poi valle a riprendere le redini del giogo che ci obbliga a essere produttivi. Mi nutrivo di palliativi ma è passata pure quella, sto dimagrendo a vista d’occhio ma voglio la mia parte. Alla scuola dell’arte di sapersi affrancare facevo il bidello, che cazzo vuoi da me? Sono capace di ascoltare le tue richieste se ti servono dei gessetti. Ci puoi disegnare sulla lavagna il cazzo che ti strafotterà e bearti delle risa della classe di coscritti mentre un professore con scarso senso dell’umorismo tradurrà nel reale il tuo intento. Deciderai di fare il mago e mai pago troverai la tua strada nell’escapologia.

Ti ricorderanno come il figlio scemo di Houdini, anche queste sono soddisfazioni. Ne sarò felice ma non saprei dirti quanto. Ammanto di possibilità il lastricato. Ho un dato di fatto in mano e un dado non tratto nell’altra. La voce che fu scaltra adesso tace. Mi piace che sia così, posso riflettere. Ammettere la propria vocazione è l’unica provocazione della quale andarci fieri. Non eri tu quello che mi diceva che “il mondo è fatto a scale: c’è chi scende e chi cerca di buttarti giù mentre provi a risalire”? L’ira che infesta ogni bivio decisionale tronca sul nascere la logica programmatica di un progetto. Muoio sul nascere e mai battezzato mi accollerò l’inferno.

L’eterno ritorno non dona alcuna pace. Ne risento. Mi pento di averlo detto. Mi pento di essermi pentito. La punizione massima per la pena minima farà stare peggio il giudice che l’imputato. Quale commiato per chi è nel giusto? Il gusto non è soggettivo, se reattivo interrompo il coito del tuo piacere di far di me ciò che vuoi. Non puoi. Semplicemente, non puoi. Degli avvoltoi che volano basso abbiamo fatto grigliate epocali. Nei nodi scorsoi abbiamo lasciato colli da baciare, ne uccidono più gli ingoi. Ma tu non puoi. Te lo ripeto da così tanto tempo che non ricordo quando.

Francesco Villari

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