Decrocifiggere le montagne!

Decrocifiggere le montagne!

di Roberto Sabatini – Blog UAAR

Non c’è vetta di monte che non sia stata marcata da un qualche simbolo religioso, il crocifisso in testa a tutti, soprattutto nel nostro paese. La sommità delle montagne è stata luogo privilegiato della trascendenza, metafora dell’ascesa al cielo, sentiero di purificazione interiore. È sembrato perciò normale appropriarsi di questi vertici, della loro potente suggestione per veicolare il sacro. Allora percuoterli, scavarli, cementificarli per collocarvi sopra una più o meno grande croce è parso ovvio, una testimonianza di fede, un luogo privilegiato per il contatto col divino.

Per buona misura sulle montagne non ci sono solo le croci, ma una pluralità di segni e simboli delle più disparate confessioni e non solo sulle vette, perché la maggior parte dei punti più suggestivi dell’ambiente montano sono stati firmati e colonizzati con manufatti di chiara valenza cultuale: cappelle, santuari, edicole votive, altari, cippi, piloni, bandierine, targhe e altri segni di credenze di qualsiasi tipo.

Chi ama la montagna e la frequenta per i più disparati motivi sa che non può evitare questo epilogo terminale

Chi ama la montagna e la frequenta per i più disparati motivi sa che non può evitare questo epilogo terminale, questi simboli religiosi, questi traduttori della naturale solennità dei luoghi apicali in una solennità religiosa.

È una specie di memento mori, un ossessivo ricordare a tutti che anche qui, in cima al mondo e su tutte le cime di questo mondo, domina una qualche versione del divino che dà un senso a tutto e che tutto uniforma, tutto piega e addomestica, omogeneizzando i significati e i valori, le suggestioni e i brividi che questi luoghi straordinari possono regalarci.

Ci sono croci di tutte le fogge e di tutte le dimensioni. Per esempio, sulla vetta dell’Amiata insiste una curiosa miniatura della torre Eiffel trasformata in una grande croce. Una bizzarra giustapposizione di stile e di significati che, per fortuna, occupa una vetta che più disastrata di così non potrebbe essere: impianti di risalita, baracche-ristorante, ripetitori televisivi, postazioni militari e via dicendo – un vero scempio per una montagna imponente, ricca di varietà geologiche, minerali, vegetali e faunistiche e anche isolata nel contesto toscano.

Proprio in questi giorni il comune di Malcesine sta brigando per innalzare una gigantesca croce da piazzare sul monte Baldo: una vanagloria in vetroresina alta 18 metri, per omaggiare Karol Wojtyla e, probabilmente, anche per incrementare il flusso dei pellegrini. Una struttura alta come un palazzo di sei piani! Senza la minima intenzione di speculare sul gravissimo incidente che uccise l’escursionista Marco Gusmini nel non troppo lontano 2014 sul colle dell’Androla nei pressi di Cevo (BS), letteralmente schiacciato dalla cosiddetta “Croce di Job” (anch’essa dedicata a Wojtila!), è sufficiente un minimo di senso comune e di conoscenza dell’ambiente di alta quota per diffidare dei gigantismi e delle sfide ai venti, alla gravità, alle grandi escursioni climatiche che li caratterizzano.

La tolleranza di chi ama e rispetta i luoghi selvaggi che il pianeta ci elargisce è grande, e spesso è sufficiente spostarsi di qualche metro e volgere lo sguardo a più vasti orizzonti per non vedere l’alterazione del paesaggio che questi simboli impongono, ma penso che la questione vada al di là delle soluzioni che ciascuno di noi può trovare per evitare questo plagio continuo della contemplazione che questi luoghi favoriscono.

Intanto va presa una posizione di principio in armonia con i criteri di laicità che portiamo faticosamente avanti: la natura in generale e i suoi ambienti più preziosi, fragili e significativi non possono e non debbono essere monopolizzati da alcuna visione del mondo, men che mai da una interpretazione confessionale del medesimo.

In questi ambienti, di cui la montagna è una parte rilevantissima, è proprio l’intrinseca naturalezza degli stessi ad essere la meta ricercata, il loro essere liberi da ogni e qualsiasi lettura preconfezionata, da ogni e qualsiasi semiologia e simbologia, da ogni e qualsiasi costruzione umana!

Già la sentieristica costituisce una modificazione del carattere selvaggio e preumano delle montagne

Già la sentieristica costituisce una modificazione del carattere selvaggio e preumano delle montagne ma, se non altro, oltre ad essere indispensabile per poterne fruire, rappresenta anche l’alterazione minimale possibile.

La preservazione dei contesti di alta quota dalla continua e insinuante antropizzazione del mondo è un obiettivo che dobbiamo assumere come prioritario e non solo per il mantenimento delle biodiversità, per la conservazione più integrale possibile della wilderness, ma anche per difendere il patrimonio estetico planetario nel quale affondano e col quale si nutrono le nostre radici.

C’è poi un altro punto essenziale che non può più essere sottaciuto e nemmeno tollerato: è la commistione e l’assimilazione che viene comunemente operata tra la religiosità e i nostri più intimi e lirici stati d’animo. Elevazione morale, godimento estetico, rapimento contemplativo, intuizioni, stati di coscienza, esperienze emozionali e sentimentali di ogni possibile intensità non vanno in alcun modo confuse con i vissuti religiosi e non possono essere veicolati dai segni, dai simboli e dalle liturgie di questi ultimi.

La dimensione religiosa ha il suo alveo esperienziale, il suo diritto di cittadinanza i suoi luoghi e le sue modalità di culto. È già arbitrario e ingiusto che sia sorretta e tutelata anche a spese di chi ne è estraneo, di chi non usufruisce dei suoi servizi, ma è inaccettabile che invada e condizioni ogni settore e ogni aspetto della nostra esperienza e della nostra stessa esistenza.

Per molto tempo, infatti, si è volutamente confusa e sovrapposta la sensibilità poetica, il fascino dello spettacolo cosmico, il senso e il sentimento del grandioso e del meraviglioso (quel che Kant chiamò il sublime matematico e il sublime dinamico), con la fenomenologia del sacro, con l’epifania del divino.

Gran parte degli stati d’animo più alti, etici, estetici, lirici e sociali non hanno nulla a che fare con le fedi, non promanano da nessuna divinità e non ne avvertono assolutamente il bisogno. Nel caso in esame sono stimolati e favoriti, sostenuti ed amplificati proprio dallo spettacolo spontaneo che determinati ambienti naturali – la montagna fra questi – rappresentano e lo rappresentano proprio in quanto tali.

La contemplazione delle sagome rocciose dei picchi, la linea dei pendii, il teatro delle valli sottostanti, l’abbraccio dei boschi, lo specchio dei laghi, il fragore dei torrenti e delle cascate, la seduzione delle forre e  delle falesie e il brivido delle cengie, dei contrafforti e dei precipizi, l’infinito degli orizzonti sterminati baciati dalle albe e dai tramonti e di molto altro ancora, sono i soli fattori che ci riempiono il cuore e la mente di bellissime impressioni, di potenti sensazioni, di grandi intuizioni: apparecchiano un mare in cui ci è dolce il naufragar!

Le vette sono luoghi in cui il nostro corpo dimentica un po’ la gravità terrestre e si sente libero e  leggero e in cui la nostra mente può librarsi e perdersi in un’aria sottile e frizzante, in cui il nostro sentire può vivere pienamente le sue emozioni e i suoi sentimenti, dove la nostra coscienza può spaziare oltre i confini ordinari.

Sono certamente tra i posti in cui le nostre più alte facoltà riescono a fluire insieme e comporre quei bellissimi stati di coscienza che chiamiamo meditativi e contemplativi, quei posti che favoriscono la sintesi del pensiero e dell’azione, della mente e del corpo, quei posti che manifestano la potenza e la straordinarietà della nostra immanenza.

Infatti, benché gli ambienti solitari ed elevati, aspri e selvaggi delle catene montuose siano spesso stati interpretati come luoghi elettivi delle ierofanie, ciò si è verificato (e continua a verificarsi) proprio per il ribaltamento speculare dei fattori, per lo scambio della causa con l’effetto. Non è il divino a manifestarsi sulle vette, ma sono le vertigini dei luoghi alti, gli stimoli del sublime naturale a predisporci interiormente ad una percezione dell’infinito immanente che è in noi e fuori di noi, ad una apertura mentale e sentimentale che uno scaltro e millenario condizionamento ha trasformato nelle epifanie del sacro e del trascendente, creando un dualismo falso e avvilente, che ci espropria le nostre più alte facoltà.

Aveva mille volte ragione Feuerbach: anche in montagna gli umani hanno alienato il loro patrimonio interiore di pensieri ed emozioni proiettandolo in un essere trascendente che li schiaccia e li domina da altezze infinite.

Sarebbe bello, oltreché spontaneo e naturale, lasciare le montagne intatte, così come si sono formate, e ci si limitasse ad andarci, con stima, rispetto e impegno e col minimo indispensabile di tecnologia.

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