Vernacolo Calabrese: “Cui mori giaci e cui campa si da paci”

Vernacolo Calabrese: “Cui mori giaci e cui campa si da paci”

di Pinella Schirripa

I greci di Calabria hanno ereditato dalla madre patria l’importanza del rito funebre per accompagnare il viaggio del defunto nell’aldilà. Dare sepoltura ai morti era uno dei supremi doveri dei vivi che rispettavano le leggi degli dèi, e cadere in battaglia senza sepoltura o comunque non poter ricevere tali riti era considerato per i greci il peggiore dei destini. Il primo gesto che veniva compiuto quando una persona moriva era di spegnere il fuoco, il focolare domestico, perenne punto di riferimento di ogni abitazione, veniva riacceso dopo il funerale dai vicini. La preparazione del cadavere era riservata alle donne anziane della famiglia, mentre quella del rogo spettava agli uomini, queste lo lavavano , lo profumavano, e lo avvolgevano in bianchi panni ,una specie di sudario, poi veniva adagiato su una barella o un catafalco con i piedi rivolti verso la porta dell’abitazione.

Il giorno successivo avveniva l’esposizione alle visite dei parenti e conoscenti che si recavano per il lutto, e durava una giornata intera, ma per gli aristocratici poteva anche proseguire per diversi giorni. La veglia era accompagnata dalla lamentazione funebre, svolta dalle donne, che manifestavano il dolore per la perdita, con gesti molto plateali: si battevano il petto, si strappavano i capelli e li deponevano sul cadavere, si laceravano le vesti, tentavano di ferirsi le gambe e il petto, si gettavano nella polvere e si spargevano cenere sul capo. I parenti più prossimi rifiutavano il cibo prima del funerale, gli uomini non si radevano sino al momento del funerale e le donne si tagliavano i capelli. Terminato il periodo di veglia, la famiglia praticava un sacrificio in onore del defunto. Generalmente si trattava di sacrifici animali, le cui carni venivano poi consumate durante il banchetto funebre.

Il terzo giorno, prima del sorgere del sole, o al calar delle tenebre, perché la luce di Elio non fosse imbrattata dall’oscena visione della morte, il cadavere posto su un carro veniva accompagnato nel luogo del rogo da un corteo. Vi partecipavano i suonatori di flauto ed i parenti che rimanevano in composto silenzio, con i volti austeri, senza versare una lacrima, perché fuori dalle mura domestiche bisognava tenere un atteggiamento misurato. Le famiglie agiate per piangere il caro estinto assumevano a pagamento un gruppo di donne, che partecipavano al corteo funebre indossando panni neri e con le lunghe chiome sciolte , e rendevano omaggio al defunto con grida strazianti, lacrime disperate e svenimenti. Non piangere al funerale dei propri familiari, ma anzi far focalizzare l’attenzione su estranei in lacrime era un modo per esorcizzare la paura che qualcosa di ancor più terribile potesse accadere. Giunti nel luogo fissato, si ergeva la pira e sopra veniva collocato il cadavere, dopo che i parenti lo avevano cosparso di grasso animale. Al termine le ossa ,separate dalle ceneri, venivano raccolte e disposte con cura nella tomba nella quale trovavano posto unguenti, coppe e le offerte. Era possibile che il corpo non venisse cremato, ma che venisse calato in una fossa rettangolare insieme alle sue armi e agli oggetti che usava quotidianamente in vita.

Il rito funebre terminava con i rituali banchetti di cordoglio, che avevano scadenze prefissate il terzo giorno (quello del funerale), il nono e il trentesimo giorno dalla morte , durante i quali veniva elogiato il morto e tutto il suo casato. Erano ritenuti necessari affinché la famiglia potesse superare il dolore del lutto e riprendesse la vita normale. In questo periodo di manifestazioni pubbliche di cordoglio si indossavano abiti di colore nero, simbolo dell’assenza di luce, dell’oscuro ,dell’ignoto e di tutto ciò che afferisce al mondo dei morti. Apposite leggi, soprattutto a partire dall’età arcaica e classica, provvidero a regolamentare lo svolgimento dei funerali, impedendo che diventassero una manifestazione eccessiva di lusso. Ad inaugurare l’usanza di portare il lutto per un periodo di tempo dopo il decesso di un congiunto, e a stabilire delle vere e proprie regole in materia, sono stati i Romani. Questa scelta era dettata da una legge disciplinata dalle XXII tavole ed esplicitamente imponeva a chi era in lutto di astenersi dai banchetti, dagli ornamenti, dalla porpora e dalla veste bianca”. Così, per commemorare i loro cari, i magistrati indossavano la praetexta nera, gli uomini la toga pulla di colore scuro, tendente dal grigio al nero, le donne rinunciavano agli ornamenti .

La scelta di vestirsi di nero ai funerali fu presa per evitare sprechi di soldi in indumenti costosi. Ai funerali intervenivano come nell’antica Grecia, professioniste assoldate all’uopo, a cui i romani davano il nome di “praeficae “ Anche a Roma come nella Magna grecia, queste donne prezzolate, si abbandonavano a eccessi che non erano permessi ai parenti, e maggiore era il compenso, più il loro comportamento esprimeva dolore per il defunto che, spesso neanche conoscevano. I lamenti funebri che intonavano per lodare il morto, erano detti “neniae o mortualia” . Le neniae avevano un numero sacro da rispettare, per cui venivano ripetute tre, sei o nove volte, a seconda dell’importanza e quindi pure della durata del funerale o della ricchezza della famiglia. Le prefiche possedevano un vero e proprio repertorio di cantilene , ad intervalli la corifea, quella che aveva migliore voce, recitava l’elogio del defunto, poi tutte insieme cantavano al suono delle tibie (tibicines). La recitazione e il canto erano inframmezzati da alte grida di dolore , da scoppî di pianto, da gesti di disperazione e da segni apparenti di dolore, quale lo scuotere la testa facendo ondeggiare i capelli disciolti, il battersi con violenza il petto, il singhiozzare.

Nel Medioevo anche la Chiesa con un mandato ufficiale che “legalizzava” il loro operato, riconobbe questa professione e ne sancì il pagamento. Tracce delle antiche pratiche funerarie persistono nelle civiltà moderne, sia pure modificati. Le laudi sono ancora celebrate in chiesa da parte degli amici e parenti durante la messa di benedizione della salma, e tramite i manifesti appesi alle mura cittadine. I doni del corredo funerario sono diventati floreali , il ricco banchetto è sostituito dal funerale celebrato per il trigesimo e per l’anniversario della morte. Le prefiche non cessarono col tramonto della civiltà romana ma continuarono soprattutto nel sud Italia dove si erano stanziati i greci. Nei paesi della Calabria , le mercenarie del dolore sono sopravvissute fino alla metà del secolo scorso ,erano chiamate ciangiuline o ciangimorto, e con il loro trivulu (piagnisteo) intervallato da singhiozzi e lamenti, raccontavano la vita del defunto e lodavano il suo operato. Retaggio dei musici greci e romani è l’usanza ancora esistente ,della banda musicale che accompagna il feretro ,i musicisti con la divisa nera ,durante il tragitto intonano diverse marce funebri. In qualche circostanza, per il trasporto del feretro al cimitero, viene anche usata la carrozza trainata dai cavalli. Permane ancora nei paesi del Sud , l’uso di vestirsi di nero per la morte di un familiare anche se in forma meno esasperata del passato. In un tempo non molto lontano, le donne indossavano gli abiti neri, le calze nere anche d’estate, coprivano i capelli con i fazzolettoni neri o le velette nelle occasioni speciali, anche i bottoni e gli orecchini venivano ricoperti con stoffa nera, e spesso per una durata che poteva essere tutto il resto della vita. Gli uomini indossavano una fascia nera al braccio o il bottone del lutto attaccato alla giacca. Il colore nero era il segno distintivo della perdita subita e per manifestare al resto del genere umano il proprio stato di sofferenza, e di dolore.

Attualmente, nella nostra società il lutto è un evento che viene vissuto più in forma privata che pubblica, il dolore non è più visto come una forma di condivisione, ma un peso che ricade essenzialmente sul singolo, ma nonostante ciò si continua a vestire di lutto durante la cerimonia funebre e a volte anche per un breve tempo. Forse anche oggi , vestendoci a lutto come i nostri progenitori greci, speriamo che la malasorte, il destino cinico e baro, non riconoscendoci in quegli abiti scuri e lugubri, volga il suo sguardo apportatore di mali da qualche altra parte.

Gli abiti di colore nero sono il pretesto che usa Filomena per introdursi nella conversazione e negli affari di Maruzza.

Cui mori giaci e cui campa si da’ paci

Filomena- Massara Maruzza, passaru tanti anni e ancora ‘nci teniti u luttu du massaru

Peppi, è ura mu vu cacciati;

Maruzza-Non penzava cha passsavanu l’anni ed ancora ‘ndavia stu cori niru;

Filomena-U beni si ciangi quandu si perdi;

Maruzza- Filomena mia, cui mori si squeta, ma u doluri ci resta a cui campa;

Filomena- Capisciu cha ancora siti abbattuta, ma cu sti pezzi niri incojiu cchiù vi avviliti;

Maruzza-Mi pari bruttu pà genti, poi vannu sparrandu;

Filomena-U parrari è arti leggera, ma supra a vui non ‘ndannu propriu chimmu u dinnu;

Maruzza- Poi ‘nta l’estati vijiu , pa mò ndajiu attri cosi pà testa. Non sapiti quantu è dura a vita pà ‘na vedova;

Filomena-Non mi pari cha vostru maritu vi dassau nuda e cruda!

Maruzza-E’ veru, rrobba mi dassau.Amaru a cui è nudu, ma cchiù amaru a cui è sulu.

Filomena-Si diciti cha siti sula fati peccatu. Figghioli non ‘ndaviti, ma parenti tanti.

Maruzza- Si voi campari sanu, di parenti statti luntanu;

Filomena- Amaru cui non si raspa a testa chi mani soi, ma mi pari cha d’aviti bisognu i nu fatturi chi vi aiuta;

Maruzza-Non saparria propriu a cui ‘ndajiu u mi rivolgiu;

Filomena- Dati vuci, palumba muta non po’ esseri servuta.

Maruzza- Vui sapiti a carcunu i cui mi pozzu fidari?

Filomena-Genti chi sapi u lavura sacciu, ma sennu i fiducia ‘ndaviti mi scandigghiati strata facendu;

Maruzza-Cumpida in tanti e fidati i pocu, dicia maritima;

Filomena – ‘Ndavi u si faci attenzioni, i cui ti fidi t’inganna;

Maruzza- ‘Ndannu u si tenuni l’occhi aperti, c’è sempri u periculu cha a cui intra ti menti cha fora ti caccia;

Filomena- A carcunu vu pozzu indicari, poi deciditi vui. Pigghia i cunsigghi i l’attri ma i toi non i dassari;

Maruzza-. Chistu cui sarria?

Filomena-E’ Roccu u Gialinusu;

Maruzza-No, no, non mi piaci, facci senza culuri o farzu o tradituri;

Filomena-Si chistu non vi pari bonu,c’è Vici u Tartaglia, parra pocu e lavura assai;

Maruzza-Bivi, e l’omini i vinu centu e ‘nu carrinu;

Filomena-Pari cha stu viziu su cacciau;

Maruzza-Vizi e natura duranu finu a sepoltura. E poi ‘ndavi na certa età;

Filomena-D’avi puru a ‘Ntoni u Tignusu;

Maruzza-Scarta frusciu e pigghia primera. Teni sempri l’occhi vasci , comu si ‘ndavi

a cuda i pagghia. E’ sulu, però fici tri figghioli e vanni spamati;

Filomena- E Franciscu u Longu?

Maruzza-E’ bonu u ‘ncinu adduvi u ‘mpendu a vertula. Na mangia propriu e si faci

mastru cha fatihga i l’attri.

Filomena-Certu cha non è facili pa ‘na veduva trovare n’omu i fiducia.

Maruzza- Tutti ‘ndavimu difetti, ma eu sugnu sula e non mi pozzu mentiri ‘nta casa

a cui capita;

Filomena- Giustu, non è cha jiati u vi fati a cruci e vi cacciati n’occhiu;

Maruzza-‘Nci mancherria , u cercu grazia e mu trovu giustizia.Viditi si vi veni a menti corch’attru;

Filomena -L’urtimu chi mi resta e poi non sacciu cchiù , è Petru u Siccu.

Maruzza-Ma chijiu è magru tostu!

Filomena –Basta chi l’ossu staci in pedi, a carni vaji e veni. E poi è bonu comu u pani;

Maruzza-Ma a mia non mi servi nu bonaccioni , u sapiti cha u ciucciu bonu u

‘ncavarcanu tutti.

Filomena-E’ bonu ,ma non è certu nu fessu . In più è sulu, veduvu e senza figghioli.

Maruzza- E sutta sutta non ‘ndavi a nujia?

Filomena-Ma vui scherzati? Non faci attru cha u vaji o campusantu e mu si ciangi a mugghieri, bonanima;

Maruzza-Ciangiri u mortu sunnu lacrimi persi, e megghiu i mia no sapi nujiu;

Filomena- A tempu i caristia, ogni funtana leva a siti, megghiu nu ciangiulinu cha nu malandrinu;

Maruzza-Non è cha vogghiu u guardu u pilu ‘nta l’ovu, ma ‘ndavi nu nasu i menza

canna;

Filomena-Ogni nasu meri a faccia sua ;

Maruzza- Sapiti ,puru l’occhiu voli a parti;

Filomena-Mi pari cha u fatturi chi vorrissivu ‘ndavi u m’esti capaci, onestu, bejiu,

allegru ,giuvani e senza famigghia , cu chisti qualità ‘nto paisi non ‘ndavi.

Vi cumbeni u vi rivolgiti a Diu;

Maruzza- ‘Ndaviti ragiuni, l’omu proponi e Diu disponi;

Filomena-E mò chi vi trovati ,affidatevi puru ai Santi;

Maruzza- E allura quanti candili ‘ndajiu u jiumu!

Filomena-Tanti,tanti,pacchì ‘ndannu u fannu nu sporzu randi pemmu u

v’accuntentanu;

Maruzza-E mò chi mi trovu accattu puru nu candileri,è capaci cha si ‘mpegnanu i

cchiù ed inveci i n’aiutanti mi mandanu nu spasimanti. Cui mori giaci e cui

campa si dà paci.

CATEGORIES
TAGS
Share This