Pinella Schirripa: Usi e tradizioni attraverso I proverbi dialettali. “Figghia ‘nte fasci e doti ‘nte casci”

Pinella Schirripa: Usi e tradizioni attraverso I proverbi dialettali. “Figghia ‘nte fasci e doti ‘nte casci”

Di Pinella Schirripa

La dote della sposa, non solo elemento della tradizione del matrimonio, ma obbligo di legge fino al 1975, quando in seguito alla riforma del diritto di famiglia (L n. 151 del 19 maggio ) è stato abrogato,ponendo fine ad un istituto ereditato del diritto Romano e tramandato nei secoli. Prima ancora che a Roma, l’uso di dare la dote alla figlia esisteva presso i greci. La donna, esclusa da ogni diritto , compreso quello ereditario, al momento del matrimonio,riceveva dal padre , dei beni che consistevano in denaro,corredo, indumenti,gioielli,mobili, oggetti di arredo e talvolta anche schiavi. Alla dote greca è stata data la funzione di “quid feminae additum” (un qualcosa che si aggiunge alle femmine) in quanto, pur se consegnata allo sposo , rimaneva di proprietà della donna, ed il padre di lei continuava a vigilare sull’uso che ne faceva .

Le veniva restituita sia in caso di divorzio che di vedovanza , qualora invece fosse stata lei a morire senza lasciare prole, veniva consegnata alla sua famiglia e poteva essere utilizzata per altre figlie. Due pinakes locresi, oggi conservati al Museo Naz. di Reggio Calabria, testimoniano l’immagine di una fanciulla con la cassa del corredo. In epoca romana , la dote , costituita tramite un accordo tra le parti “stipulatio” , era un obbligo nel procedimento matrimoniale sia tra i ceti altolocati che tra quelli popolari. La donna doveva essere accompagnata al matrimonio insieme ad una massa di averi ,allo scopo di sostenere e fronteggiare i costi della vita matrimoniale “ad sustinenda onera matrimonii” in cambio, il marito offriva alla moglie una “donatio “ equivalente.

Dopo le nozze, la dote non diventava di proprietà dello sposo,ma si limitava ad amministrarla con la diligenza del buon “pater familias” e ne rispondeva personalmente, alla sua morte, tornava alla vedova in piena e libera proprietà. Andava restituita alla donna anche in presenza di un divorzio ed alla famiglia di lei in caso di un suo decesso ed in assenza di figli. Col diritto longobardo scompare l’obbligo della dote a sostegno economico della famiglia per fare spazio al faderfio, una donazione di beni (armenti , masserizie domestiche ed il corredo) fatto dal padre alla figlia in occasione del matrimonio, e costituiva una sorta di indennizzo perché le donne uscivano dalla linea di successione ereditaria, che identificava nei figli maschi gli eredi “veri” e i legittimi continuatori del nome e delle fortune della famiglia. I beni giuridicamente appartenevano alla donna pur essendone consentito l’uso al marito. Durante il

medioevo con la ripresa del Corpus Iuris Civilis di Giustiniano I , l’antico precetto longobardo si tramuta in obbligo e si incomincia a parlare di “exclusio propter dotem” , la donna esclusa dall’eredità ,si deve accontentare di ciò che riceve al momento del matrimonio ,anche se non vi erano veti per lasciti oltre alla dote. La moglie rimaneva proprietaria dei suoi averi ed aveva tutto il diritto di richiedere l’intervento del giudice nel caso in cui il marito le dissipava. Ad incominciare da questo periodo fino al XIX sec, sorsero in tutta la penisola numerosi istituti sia laicali che ecclesiastici, che raccoglievano fondi allo scopo di fornire la dote alle ragazze da marito molto povere e favorendo in questo modo i loro matrimoni.

Nell’Italia meridionale ,le erogazioni venivano depositati nei Monti di Maritaggio e, si conosce l’esistenza di questo ente benefico a Gerace , all’epoca distretto della provincia Ultra del Regno di Napoli, istituito a favore delle ragazze povere del Borghetto. Il termine dote richiama inevitabilmente alla memoria la cassapanca (cascia nel nostro dialetto) che conteneva il corredo della sposa. Era consuetudine, nelle famiglie povere calabresi ,appena nasceva una bambina iniziare a preparare il corredo , da qui il proverbio : “ figghia ‘nte fasci e rrobba ‘nte casci “. Questa incombenza gravava economicamente sui maschi di casa ( il fardello era piuttosto pesante poiché le fanciulle senza dote rimanevano zitelle ), ma erano le donne ad occuparsene , così appena nasceva una femmina , le mamme provvedevano a comprare o a tessere tessuti che poi venivano abbelliti con ricami e frange .

Quasi in ogni casa calabrese esisteva un telaio per realizzare i teli di cotone ,di lino, di canapa, di ginestra, ed i tessuti di lana e di seta per coperte. La conoscenza della tessitura risale al periodo greco, mentre l’arte della seta affonda le sue radici nel periodo bizantino e si sviluppò grazie alle abilità dei commercianti ebrei che erano presenti in varie comunità sparse sul territorio calabrese. Quasi sempre ,erano le ragazze stesse a ricamare il proprio corredo ed imparavano l’arte , da bambine, presso le “ Maistre” o nei laboratori di ricamo delle suore. Una volta appreso il necessario, proseguivano a casa loro, creando veri e propri tesori che prendevano forma durante le ore pomeridiane, soprattutto nella stagione estiva. Un tempo nei paesi era facile vedere donne ,che sedute ” nta ruga”, si dedicavano all’arte del ricamo con il “tilaretto”di legno poggiato sulle ginocchia. Ogni pezzo ultimato si deponeva nella “cascia”, tra la naftalina e tanti sogni per un futuro migliore .

Ovviamente, la qualità e la quantità del corredo dipendevano dallo status sociale della famiglia. Era consuetudine fino agli anni ‘60/’70, poco prima delle nozze , fare “a vucata” , i pezzi del corredo venivano lavati con sapone di Marsiglia fatto in casa e cenere , ed infine sciacquati nelle fiumare e stesi al sole. Dopo venivano esposti alla vista dei parenti e,quindi, inevitabilmente, anche alle malcelate invidie, chiacchiere e critiche . L’annoso accordo romano relativo alla dote , si protrasse in Calabria fino alla metà

del secolo scorso, e non appena l’uomo chiedeva la mano della ragazza , le due famiglie pattuivano verbalmente la dote (s’addubbavanu), e solo dopo aver raggiunto l’accordo si procedeva a presentarlo all’interessata . Se la capacità economica della famiglia lo permetteva , la sposa riceveva in dote oltre al corredo, anche la casa, terreni, denaro contante , animali domestici, e lo sposo in contra dote oltre agli indumenti personali, portava anche un appezzamento di terra da lavorare, un certo quantitativo di grano da macinare e in parte da seminare . Prima della celebrazione del matrimonio, davanti ai parenti e testimoni , le due famiglie formulavano l’accordo preso in precedenza in modo chiaro e preciso, poteva essere verbale o scritto (carta dotale), i benestanti preferivano andare davanti al notaio ed il patto veniva stilato su carta bollata.

Nei vari accordi si riteneva trascurabile la sfera affettiva e la volontà della donna nella scelta del marito, molto importante invece era unire le risorse a vantaggio della nuova famiglia, che in una economia debole come quella del meridione poteva far comodo. Ricordo mia nonna che mi raccontava di Rosina, una giovane roccellese che intorno agli anni ’30 del secolo scorso, sull’altare quando fu il momento del fatidico “sì “ esclamò, piuttosto risoluta, che al suo posto , il proprio fidanzato poteva prendersi l’asina , considerato che l’aveva pattuita prima ancora che lei lo conoscesse. La dote, nata come una liberalità, sia pure regolamentata, divenne con i secoli una condizione pesante per le fanciulle e le loro famiglie, tanto che la nascita di una femmina portava sconforto e delusione (mala nottata e figghia fimmina) . Non erano braccia che contribuivano al budget familiare , anzi in vista del matrimonio concorreva a sottrarre le misere risorse a disposizione, e quando di femmine ce n’era più di una , in casa era una vera e propria disgrazia.

E proprio di questa sventura sembra godere comare Carmela, invidiosa e pungente , perché la figlia nonostante la ricca dote ancora è zitella .

Carmela-Cummari,a fini misi si marita a figghiola e vui , u cumpari e la signorina

cummaruccia siti ‘mbitati;

Peppina-Non sapiti chi prejiu chi ‘ndajiu cha a cummarejia mia s’accasa ,si ‘ndaviti

bisognu mu diciti,non c’è vergogna a domandari chijiu ch’abbisogna;

Carmela-Vi ringraziu cha v’offristuvu. Amicu e cumpari ‘nto bisognu pari;

Peppina-Na cosa vogghiu mu va domandu : – Comu mai facistuvu i cosi tantu i

prescia ?

Carmela-Cummari, i cosi longhi si fannu serpi;

Peppina-Ma a biancheria l’aviti pronta?Si no a socera da figghiola chi dici!

Carmela-E’ già lavata ,stirata e mentuta ‘nta cascia.Non aspettavi u si faci ‘zzita

pemmu u provvidu, si dici figghia‘nte fasci e doti ‘nte casci.

Peppina-Non pa malagnità ,ma pensavi cha tra ortu, animalucci,cucinari ,vucati e

crisciri figghioli non trovastuvu u tempu u filati e mu tessiti;

Carmela-Filu e tessu doppu a Dimaria, no pà nenti u dittu dici : si voi u vidi

na bona massara guardala quando fila a la lumera ;

Peppina-Non capisciu comu fati nommu u riposati mai;

Carmela- A mammia mia ,bonanima, facia accussì, e si sa cha adduvi ‘nzumpa a

crapa ‘nzumpa a crapetta;

Peppina-I lanzola ennu ricamati o ennu sulu cu giorninu?

Carmela –Ennu tutti ricamati, quali da maistra e quali da cotrara stessa e di soru;,

Peppina –Certu, na manu lava l’attra e tutti e dui lavanu a faccia, ma i fila di

tuvagghi da facci i ‘ntrizzastuvu?

Carmela -Eccomu no!Ci mancheria mi dassamu senza;

Peppina – I sarvetta ennu i janestra o attru?

Carmela-Quali i janestra, quali i canapa e quali i cuttuni ;

Peppina – E la frangia di cuverti è fatta o manichinu ?

Carmela-Sì i cotrari i copiaru tutti du corredu i donna Franceshina;

Peppina-I figghioli vostri ennu una megghiu i n’attra,i ‘mparastuvu boni;

Carmela-A figghiola pa comu è ‘mparata e la stuppa pa comu è filata;

Peppina-Ma pacchì a figghiola a maritati tanta picciula ?

Carmela-L’età è giusta, e poi fimmini e vinu si caccianu cu promentinu;

Peppina-A Micuzzu chi ci promentisuvu pà doti? U sapiti cha promentiri e non dari

restanu figghioli i maritari;

Carmela- Nui simu genti onesta e parrammi chiaru : i possibilità nostri ‘ndi

permettunu sulu u corredu e nenti attru, chista è a zita e cui a voli sa

marita ;

Peppina -Siti fortunati cha Micuzzu non vi pretendiu terreni o casa ,si no stu

matrimoniu non s’addubbava ;

Carmela-Cummari, a doti chi portanu i figghioli mei esti povera , ed è veru, ma

appattunu ca bellezza,cu garbu e ca serietà ;

Peppina- Pensati cha a massara Rosa è cuntenta i stu matrimoniu? Chi dici,chi dici!

Carmela-Dici cha cui pa sordi na ricca si pigghia,a vita s’amarijia e la rrobba

squagghia;

Peppina-I quandu u mundu è mundu ,u paru cerca u paru ;

Carmela- Adduvi c’è gustu non c’è perdenza;

Peppina- Mò c’esti amuri e tuttu fila lisciu, poi cu l’anni arriva u sdegnu e ‘ncignanu

i guai;

Carmela- Cummaria mia, peni e guai non mancanu mai;

Peppina-Cu sta figghia vi jiu bona, ma penzati cha ancora ‘ndaviti n’attri quattru e

non si sa cui vi capita;

Carmela – Diu vidi e provvidi puru pa d’iji, intantu vui considerati cha ‘ndaviti una

sula e si staci ‘mbicinandu a trentina;

Peppina-Da mia non ci manca propriu nenti ,e pa doti ci damu casi, terri , sordi

‘nzini fini e corredu i lussu. Non sapiti quanti giovanotti scartau finu a mò;

Carmela-A gatta chi non arriva o salatu dici cha feti;

Peppina-Carmela cu sti paroli m’offendistuvu;

Carmela- Mò mi stancavi, e allura megghiu na vota arrussicari che centu ‘ngialiniri .

Peppina – Tè !Tè ! puru i pulici ‘ndannu a tussi;

Carmela- Vui ‘ndaviti i paroli accussì taglienti chi ammazzanu cchiù i na spata !;

Peppina-E allura! Quando si martejiu batti e quando si ‘ncudini statti ;

Carmela-Mi stati facendu intendiri cha vui mi potiti diri quantu nu saccu e na

sporta,ed eu ‘ndajiu u ‘nghiuttu feli senza u rispundu?

Peppina-E’ propriu addaccussì,amaru u picciuli chi vaji ‘nto randi;

Carmela-Eu vi dicu cha a ‘mbidia vi faci parrari o straventu, ma non v’amarijiati ,nu

jennaru prima o poi u trovati, tantu cu sordi e cu vigna si marita puru a scimmia.

Photo by Samantha Gades on Unsplash

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