“Na vota nta ruga”, il nuovo testo in vernacolo di Pinella Schirripa

“Na vota nta ruga”, il nuovo testo in vernacolo di Pinella Schirripa

I giorni che precedono il Natale mi evocano ricordi lontani, fatti di odori di fritto, di profumi di spezie,di giochi all’aperto (a fossejia di nuciji) nonostante il freddo, di musica natalizia intonata dalla banda paesana che passava ogni sera ,fermandosi in ogni casa della ruga, sì perché una volta dove ora ci sono case chiuse, abitate dai fantasmi dei ricordi, c’erano le rughe. Queste strutture abitative sono tipiche dei borghi medievali calabresi , testimoni del nostro modo di vivere in comunità, e del passaggio dei diversi popoli che hanno attraversato queste terre .

Le pietre delle case,delle chiese, dei ruderi, raccontano a chi vuole dar loro ascolto, un passato glorioso ed il declino di una grande civiltà,di splendidi gioielli d’ arte ma anche di un lungo e buio feudalesimo che ha comportato sfruttamento,povertà, isolamento economico e culturale. I nostri paesi dell’entroterra si sono formati intorno a borghi medievali, anche se l’incuria, terremoti e alluvioni hanno cancellato la loro storia ,possiamo,attraverso le poche ma significative tracce, farli risalire a cavallo tra il VI sec d.C e il XIII.

Dopo la caduta dell’impero romano, le popolazioni che vivevano sulla costa si spostano verso le zone più interne ,spesso lungo le valli dei fiumi, spinti dalla necessità di difendersi dalle incursioni saracene e dalla malaria che aveva infestato le pianure, rendendole inospitali. Nei luoghi di altura, le famiglie trovano i luoghi adatti per un loro sicuro e stabile insediamento, ed anche nuove terre da coltivare e per pascolare .Ad attirare le popolazioni verso l’interno furono anche i monaci, che costretti ad abbandonare l’oriente cristiano trovarono rifugio in Calabria, stanziandosi inizialmente in grotte ed artefatti naturali situate nelle aree collinari e montani, per vivere in completa solitudine una intensa spiritualità.

Col passare del tempo, i monaci decidono di lasciare le loro celle e riunirsi in strutture monastiche come eremi, laure e cenobi . I lasciti e le donazioni fatti ai conventi consentì loro di comprare nuove terre ,tanto che si rivolsero alle comunità locali per la manodopera ed insieme incominciarono a lavorare i campi. Insegnarono loro come disossare la terra, a piantare vigneti, a modificare i sistemi di coltivazione e ad introdurre nuove piantagioni arboree fra cui il gelso bianco, necessario all’allevamento del baco da seta . Tra le comunità locali ed i monaci basiliani si instaurarono rapporti umani, commerciali e culturali, agevolati dalla parlata greca che era in uso, grazie al processo di ellenizzazione intrapreso dai bizantini che avevano occupato la regione e sia perché nei luoghi della Magna Grecia , secondo

una tesi molto accreditata, la lingua greca affiancò, nei secoli, quella latina , senza mai disperdersi. A tal proposito va ricordato che lo studio del greco cominciò in Italia grazie a due dotti calabresi: Barlaam monaco e vescovo di Gerace, amico del Petrarca, e del suo scolaro Leonzio Pilato, che tenne, per tre anni: 1360-1363, le prime lezioni di greco nello Studio di Firenze e, fra quanti lo seguivano, c’era anche il suo amico Boccaccio. Nel periodo di massima espansione bizantina, la Calabria ha trasformato il suo territorio, le coste sono completamente disabitate,le pianure una volta fertili ridotte a paludi, i contadini, i piccoli proprietari terrieri,i braccianti ormai si sono completamente stabilizzati nelle alture, spesso vicino ai conventi ,raggruppati in villaggi sparsi detti choria ( privi di mura),disposti all’interno di un campo coltivato a seminativo (ulivo o grano) .

I luoghi dove sorgono le abitazioni vengono scelti a caso,senza una precisa indicazione urbanistica , da un gruppo di persone legate da vincoli di parentela. Per scopi difensivi e per offrire riparo dalla pioggia e dal vento ,le case vengono costruite una addossata all’altra, su due piani e con scale esterne per impedire il passaggio di carri d’assalto . Il borgo rurale era distinto dall’insediamento fortificato, il kastron,posto secondo i principi bizantini in un luogo che per la sua conformità naturale era inaccessibile , permetteva il controllo della costa ed una facile difesa. Ospitava i funzionari , che esercitavano il potere amministrativo e militare ,ed il vescovo che rappresentava il potere religioso.

In caso di estremo pericolo fungeva da rifugio per la gente dei villaggi, del loro bestiame e delle loro provviste. I Normanni, giunti in Calabria intorno all’anno 1060, crearono una fitta rete di castelli adatti alle loro esigenze belliche e a nuovi modelli difensivi, e nel contempo riadattarono gli edifici bizantini fortificati che sovrastavano i borghi . Se da un lato l’incastellamento impiantò un sistema feudale che consentì ai signori locali di incrementare il pagamento dei tributi gravando maggiormente sui lavoratori della terra , dall’altro diede sicurezza dagli attacchi nemici , e ciò portò ad estendere le coltivazioni. La maggiore quantità di cibo migliorò le condizioni di vita e permise un aumento demografico,gli agglomerati urbani si intensificano e si avvicinano l’uno all’altro, favoriti anche dalla politica normanna che preferiva insediamenti accentrati a quelli sparsi ,per avere un maggiore controllo sulle persone e sulle terre.

Man mano che i borghi divennero sempre più compatti, vengono chiusi da mura . Testimonianza di questi insediamenti bizantino-normanno nella Locride sono Stilo e Gerace ,dove ancora possiamo ammirare veri e propri capolavori architettonici, ma potrei citarne altri. Le strade che collegavano gli insediamenti al castello erano piuttosto strette,tortuose ,in pendenza e fiancheggiate da entrambi i lati da abitazioni e botteghe , percorribili a piedi o sul dorso di un cavallo o di un mulo, e proprio in epoca normanna vengono denominate rughe . Il termine latino ruga ,intorno all’anno mille,viene usato oltre al suo significato originale di grinza, piega della pelle, anche per indicare il solco e poi per denominare le vie strette dei borghi. Mentre in altri luoghi ,la parola ruga ha subito l’influenza dei francesismi divenendo rua o rue ,in Calabria è sopravvissuta nel tempo ed è giunta a noi , anche se oggi è usata soltanto nei dialetti.

Le rughe ,fino agli anni ’60 del secolo scorso si presentavano come luoghi pieni di vita, in continuo movimento dall’alba fino a sera, e dopo lo scampanellio dell’Ave Maria (a Dimaria) calava il silenzio e ognuno si chiudeva nella propria umile abitazione .Facevano eccezione le serate più calde dell’estate quando tutti seduti davanti alle porte o sui ballatoi (mignani), si perdevano dietro i racconti degli anziani che ruotavano sempre intorno a spiriti e fantasmi . Nelle rughe, ognuno conosceva l’altro, le sue virtù e le sue debolezze, ma soprattutto i suoi bisogni e quindi si soccorreva con un tozzo di pane , un filo di olio, un frutto dell’orto, un pezzo di carbone, due pomodori di quelli che durante l’estate adornavano i balconi legati a mò di ghirlanda, un’acciuga salata o le olive in salamoia, un pugno di farina. Nonostante la povertà che accumunava tutti , i vicini erano capaci di gesti di grande solidarietà.

Ci si prestava di tutto: zucchero, sale, a cardara , u levatejiu per fare il pane,perfino soldi. La strada era il centro vitale dei bambini che ci giocavano , e del cicaleccio delle donne. Alle vicine ,un’ opportunità d’incontro la dava l’ambulante che passava e decantava i tessuti portati in bella mostra sulle spalle e sulle braccia distese,perché occorreva controllare la qualità del lino e le misure prese a braccio, l’arrotino che affilava le forbici ed i coltelli, il compratore di capelli(perché non si buttavano neanche quelli che rimanevano tra i pettini) e li scambiava con accessori casalinghi, il carbonaio che

passava soprattutto d’estate perché il carbone andava comprato quando non era bagnato, l’ombrellaio, e u ‘mpagghiaseggi . Nei pomeriggi d’estate , le vicine si riunivano nel punto della strada che offriva ristoro dal caldo , le mani sempre affaccendate con i ferri per le calze, con i pizzi all’uncinetto, con i ricami al tilaretto , mentre la bocca era occupata a recitare il rosario o a commentare qualche novità che portava inevitabilmente a fare pettegolezzo spicciolo.

Non potevano mancare i litigi, ma svanivano velocemente , proprio come in una famiglia ,dove tutti si vogliono bene.

La ruga era il luogo dove si nasceva, si cresceva,si prendeva moglie (mugghieri i ruga e sangianni i fora) e dove si moriva, era una piccola comunità all’interno del paese, dove spesso si era accumunati da vincoli di parentela perché le case si passavano da generazione in generazione, e dallo stesso mestiere(a ruga di marinari , a ruga di campagnoli), per questo una era diversa dall’altra e a volte anche lo stesso dialetto si diversificava .Tali differenziazioni cogli anni andarono via via scomparendo , e poi a causa delle emigrazioni e per le nuove costruzioni in luoghi più pianeggianti, sono scomparse anche le rughe . Spesso, quando penso agli anni della mia infanzia non riesco a separare il ricordo dei miei nonni da quello dei vicini di ruga , allora il mio pensiero va ad Annara, a Vici u Candiolu, a donna Giannina , a Cicilia , a Rosaria, a Mastru Micu ed a tanti altri che sono nel mio cuore e continuano ad occupare un posto tra i miei affetti.

La ruga era veramente una famiglia allargata dove si conviveva e dove non esisteva l’invidia e la malignità, proprio come dice Vicenzinu al suo amico ‘Ntoni,i due protagonisti del breve dialogo in vernacolo roccellese.

Vicenzinu-Amicu meu,oji vi viju cchiù mortu cha vivu,assettatevi nu pocu cu mia;

‘Ntoni- ‘Ndaviti ragiuni,mi sentu l’occhi ‘nta madujia;

Vicenzinu- E chi voliti u facimu! Doppu a sessantina nu morbu a matina;

‘Ntoni- Veramenti ,superammi puru i settanta, vu scordastuvu?

Vicenzinu-Sordi e l’anni non cuntari mai, i primi ennu pochi e li sicundi ennu assai;

‘Ntoni-Volenti o nolenti, stacimu ‘nbecchiandu ;

Vicenzinu-E cui ‘ndavi l’anni , ‘ndavi puru i malanni,amari nui;

‘Ntoni- Mi rovinavi aieri, carrijiandu fascini ‘ncojiu ;

Vicenzinu-E non avevavu ‘na carretta?

‘Ntoni-Sì cha l’ajiu, ma na pigghiavi;

Vicenzinu- Cui ‘ndavi i commiti e non si servi ,non d’avi cumpessuri chi l’ assorvi;

‘Ntoni- Speravu cha carcunu da ruga m’aiutava, ma non cumpariu nujiu;

Vicenzinu- Po’ esseri cha non vi vittaru;

‘Ntoni- Chi diciti! ‘Nta ruga mia ogni spuntuni ‘ndavi occhi e ogni sipala ‘ndavi ricchi ;

Vicenzinu- E vui non potevavu chiamari? Palumba muta non po’ esseri servuta;

‘Ntoni- Certu cha chiamavi e bussavi porti, ma quandu u sumeri non voli u ‘mbivi abbaca u frischi;

Vicenzinu- Giuvanotti chi non sannu i rispettu;

‘Ntoni- U rispettu è misuratu, cui lu porta l’avi portatu,e pà comu si cumportaru non mi parunu tantu degni;

Vicenzinu- Vi giuru cha non capisciu pacchì ‘ndannu tutta sta superbia,alla fine si crisciri ‘nta ruga,cu nui attri ;

‘Ntoni-Prima o poi ci cala, ricordatevi cha a superbia partiu a cavajiu e tornau a pedi;

Vicenzinu-Non mi fidu ma penzu ,cha doppu tuttu i beni chi ‘nci facistuvu ,si comportaru i sta manera . E’ veru,cha fari beni è delittu ;

‘Ntoni-Cchiù i porti ‘ncojiu e cchiù ti muzzicannu i spaji;

Vicenzinu-Chi mala genti! ’Nta chi mundu simu!

‘Ntoni- Comu dici u dittu, oji a ttia e domani a mia.Prima o poi venanu u bussanu a porta mia;

Vicenzinu- Veni, veni u turnu loro, era a regina e ‘ndeppi bisognu da vicina;

‘Ntoni-Comu cangiari i tempi!’Na vota ‘nta ruga ‘ndi volevamu tutti beni,u vicinatu era comu nu menzu ‘mparentatu;

Vicenzinu-I porti eranu sempri aperti e lu cori puru,’nda aiutavamu unu cu l’attru;

‘Ntoni- Imbeci mò si ‘ndai t’aiuti e si no ti sdarrupi, non poi cercari nenti a nujiu;

Vicenzinu- Adduvi sputava unu alliccava l’attru ,e non c’era ‘mbidia e né superbia;

‘Ntoni-Eramu comu na pigna, e affabili unu cu l’attru;

Vicenzinu- Vi ricordati ,quantu voti cu nu panaru i fica conzammi a buffetta ‘nto chianu e mangiavamu tutti, randi e picciuli?

‘Ntoni –Mi ricordu eccomu, eramu poveri ma ‘ndi spartevamu chijiu poco chi c’era;

Vicenzinu-Ancora mi pari cha i sentu i paroli i patrima, quando dicia: u dari non fa dijiunari, pacchì u Signuri ‘ndu rendi;

‘Ntoni- Ed eu puru mi ricordu quando i vecchi dicevanu :- u toi di toi e du stranu quantu poi ;

Vicenzinu – Da vucca di vecchi nesciru sempre santi paroli ;

‘Ntoni- Chiji cunsigghi i ritenia tantu giusti, cha ancora i mentu in pratica ,puru si poi mi pentu, pacchì i perzuni ennu comu u cavulu jiurutu, chijiu chi ci fai tuttu è perdutu;

Vicenzinu-Ringraziandu Diu oji ‘ndavimu tuttu, ma l’affiatamentu tra vicini mi manca e tantu;

‘Ntoni – U mundu fici cangiamenti ,quali in beni e quali in mali ,l’importanti cha nui dui restamu sempri u stessu;

Vicenzinu- Amicu meu, nui simu comu u vinu bonu chi non diventa mai acitu, pacchì a gutti duvi maturammi era i lignu sanu. E mò ‘ndi bbivimu stu biccherejiu a saluti nostra, e a faccia di mali vicini!

Pinella Schirripa

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