Eccola, eccola là, la Luna…

Mi è sempre stato difficile rispondere a una delle domande più banali del mondo: “di dove sei?”
Già, di dove sono?
“Come posso rispondere – pensavo – proprio io nata e cresciuta a Milano, trasferita a quattordici anni a Gioiosa, poi a diciannove a Roma e ora a Francoforte?”
Mi sono resa conto di quanto avessi bisogno di rispondere a questa domanda solo quando mi sono trasferita all’estero per lavoro.
Nel tempo il mondo intorno a me é cambiato. Io sono cambiata.
Appena finito il liceo avevo come la sensazione di poter dominare il mondo, mi sono iscritta all’università: studio, a volte lavoro, risate, pianti, lotte, riunioni di partito, manifestazioni, notti insonni, alcune sui libri altre a ridere fino a stare male con i miei amici. Il mondo era tutto nel palmo della mia mano, avevo l’impressione che se avessi stretto il pugno avrei potuto schiacciarlo a mio piacimento. Mi immaginavo “dottoressa” e pensavo a quanto avrei potuto fare, a quante speranze sarebbero divenute realtà.
Poi mi sono laureata e ho capito che i miei sogni erano, probabilmente, solo illusioni.
Le notti ora erano insonni perché avevo paura. Paura del presente. Paura del futuro. Paura di rimanere immobile o, peggio, di girare a vuoto, tornando sempre alla casella del via, come in un sadico gioco dell’oca.
Non c’è lavoro. Non c’è lavoro. Non c’è lavoro. Era come un mantra che mi ripetevo, che mi ripetevano. Era ed é tutto vero, non è solo vedere il bicchiere mezzo vuoto, basti pensare che la disoccupazione in Calabria si attesta intorno al 20-21% e la media nazionale è a poco meno del 13%. La drammaticità della situazione é reale; come può non mancarti il respiro se non sai neppure come mettere un paio di euro in tasca? Ricordo un articolo del Financial Times di qualche tempo fa che definiva la mia generazione “lost generation”, la generazione perduta, riprendendo un termine che Ernest Hemingway aveva utilizzato nel suo romanzo “Fiesta” per i giovani che durante la prima guerra mondiale erano diventati maggiorenni, trovandosi così ad essere coinvolti nel conflitto e nelle sue drammatiche conseguenze. Pensare che quel termine oggi torni alla ribalta per descrivere anche me, non lo nego, mi fa un po’ rabbrividire. A pensarci bene, però, anche noi siamo protagonisti di un conflitto, certamente meno cruento, ma ugualmente carico di dolore e di ripercussioni negative; con l’aggravante che in Calabria ti trovi a dover combattere, in questa nostra “Grande Guerra”, anche altre battaglie, contro truppe, sfortunatamente, meglio equipaggiate e sovente con appoggi esterni molto più potenti.
Rispetto a tutto questo mi sentivo in trappola e davanti a me rimanevano solo due strade: soccombere o lottare. Dopo tanti passaggi dal via, ho deciso di lottare. Francoforte era un’opportunità, la prima dopo mesi di nulla.
Sull’aereo che mi portava nella fredda e arrogante Germania sentivo dentro me vivere emozioni apparentemente contrastanti, l’eccitazione e la paura, la speranza e la frustrazione, la rabbia verso una terra che mi aveva soffocata, obbligandomi a scappare e la paura di perdere le poche certezze che con fatica mi ero costruita.
Un giorno, rientrando a casa dal lavoro, con le gambe stanche e i calzini zuppi di neve, ho sentito l’odore di un forno a legna. Banale, me ne rendo conto. Ma quell’odore ha scatenato qualcosa, così ho capito quale fosse la risposta a quella famosa domanda: “sono calabrese”.

foto articolo Alessia

Improvvisamente, sapendo da dove venivo, avevo chiaro dove andare. Le mie radici erano lì, ma i miei rami potevano crescere ovunque. Le mie gambe sono diventate quelle delle migliaia di migranti sparsi per il pianeta, di tutti quelli che hanno attraversato oceani, di quelli che ancora oggi non scelgono di andar via. Mi sono odiata per tutte quelle volte che ho bistrattato la mia terra e ho detestato i maledetti che l’hanno stuprata fino a toglierle persino la forza di sognare.
Ho sentito come un dolore nel petto, forse perché per la prima volta ho capito il senso della parola nostalgia e per la prima volta ho capito cosa significasse tornare a “casa”. E mi sono sentita come il piccolo minatore di una novella di Pirandello, Ciàula (tanto per restare in tema!), quando scopre l’esistenza della luna: “…Possibile? Restò – appena sbucato all’aperto – sbalordito. Il carico gli cadde dalle spalle. Sollevò un poco le braccia; aprì le mani nere in quella chiarità d’argento. Grande, placida, come in un fresco, luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna. Sí, egli sapeva, sapeva che cos’era; ma come tante cose si sanno, a cui non si è data mai importanza. E che poteva importare a Ciàula, che in cielo ci fosse la Luna? Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la scopriva. Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola, eccola là, la Luna… C’era la Luna! La Luna! E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, là, mentr’ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva piú paura, né si sentiva piú stanco, nella notte ora piena del suo stupore.”
Non posso sapere quanto o come mi segnerà questa esperienza estera, ma una cosa già mi ha aiutato a capirla: Gioiosa, come la Luna, è sempre stata lì. Spesso, però, non ci accorgiamo dello splendore di ciò che è più vicino ai nostri occhi, per questo non lo difendiamo e non lo preserviamo con tutte le nostre forze come invece dovremmo.

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