Caulonia e il suo Ermafrodito

Caulonia e il suo Ermafrodito

Ermafrodito, del tempo del pregiudizio, delle memorie perse che fecero di noi gli eterni ignoranti, appena desti dal sonno cieco e soave delle talpe sotterra, privi ancora delle smanie del divenire adulti. Non sapevamo di greco e di latino, e ci erano sconosciute le civiltà sublimi della conoscenza, e basse ai piaceri dell’essere. Parlavamo il dialetto stretto degli stretti vicoli nei labirinti della mente che si affacciava alla vita delle turbe dei mutamenti. Negli antichi anfratti e nelle pietre vivevano rifugiate le ultime mitologie. Afrodite con l’ago e il filo, nei laghi gemmati di primavera, intrecciava collane di papaveri rossi per adornare il collo e il petto e riflettere nell’iride il colore acceso dei suoi desideri, scioglieva le fulve chiome nelle chiese dove volavano gli amorini tra gli stucchi dorati e gli sguardi furtivi, levava alti gli occhi al sacro e sognava i pudici rossori del profano. Ermes s’aggirava per i coltivi delle amare fatiche e le tane oscure delle cantine, per i mulini ai piedi del monte e per i trappeti sui crinali delle colline olivate, beveva ai ruscelli attoniti il frutto dell’uva torchiata ed era come se succhiasse avido dal seno della terra, posava la punta del tirso sui massi bianchi delle fiumare come fosse il viandante dei meandri di mari e di cieli infiniti, senza meta e senza tempo. Qui, gli dei pellegrini vestivano gli abiti dimessi dei laceri passanti che popolavano le vie e bussavano alle porte privi del potere di segnare il Fato e arzigogolare la volontà rude degli uomini in cima alla rupe. Le loro statue si sfaldavano con il polverio delle mummie antiche al contatto con l’aria, come le case e i palazzi fagocitati nelle vertigini della solitudine, e le chiese dalle scampanate vane si vuotavano per inseguire un dio nuovo, straniero e lontano. Tutti trascinati dalla fatalità di una rappresentazione decadente, ignara, e palpabile nelle partenze delle generazioni, come accadde ai loro padri. Teatro dei secoli in cui andava in scena la moderna mitologia della tristezza.

Ermes e Afrodite, raccontava la leggenda che ignoravamo, si congiunsero e generarono un figlio che da loro prese il nome: Ermafrodito. Dai genitori divini trasse pure i tratti bellissimi della somiglianza, ed il terzo sesso gli fu donato dagli dei che accondiscesero al desiderio ardente di Salmace, bramosa di unirsi nelle sue carni e nella sua mente. Questa natura androgina fu accolta senza vergogna dal mondo classico ed esaltata nelle arti come una delle meraviglie del normale.

ERMAFRODITO-DAVANTI

Ermafrodito, da noi, ebbe umili origini, nacque dalla dignità dei popolani che arrovellavano la loro esistenza attorno alla prole; e nacque in un corpo che non era suo per colpa di una natura beffarda che intricò e ne confuse i gonadi.

Lo ricordo negli abiti mascolini. Faceva la pipì in piedi dinnanzi agli squarci ascosi nei muri cadenti, Giocava sul ballatoio con le bambole di stoffa lisa, mentre le frotte dei ragazzi inesausti si lanciavano per i pendii con i cerchi divelti dalle vecchie botti consunte e risalivano la ripidità dei selci mettendoseli a tracolla, felici e affannati. In lui, due occhi innocenti in un volto ibrido rivelavano le bellezze del profilo e le movenze del doppio essere. Così si mostrava sul piccolo proscenio in cima alle scale, da dove si comunicava con tutto il paese. I ragazzi e le ragazze, istintivamente, lo rifuggirono non sentendolo pienamente appartenente al loro rispettivo sentire. Non ebbe nessuno accanto a cui confidare un segreto incomprensibile a se stesso. Lo ricacciarono, involontariamente, nel tormento della diversità vissuta nella solitudine e nella vergogna che lo assalivano sentendosi gli occhi di tutti puntati addosso,

Il passare del tempo dipanò il conflitto dei due cuori palpitanti nello stesso petto, che cominciò a gonfiarsi nello stupore dei lineamenti del viso e delle fattezze corporee conturbanti a cui era impossibile accedere alle altre donne, come fosse l’ascesa impedita ad un paradiso a loro proibito. Cominciò a incipriare le gote, ad assottigliare le ciglia, a modulare il passo nell’eleganza dell’apparire femminile per specchiarsi nell’intimo della sua vera natura, nonostante il particolare che lo contraddiceva. In paese c’era chi diceva che fosse un uomo malato e chi una donna mancata, e tutti concordavano nella disgrazia di una manifestazione contro natura. Allora, Ermafrodito capì che in questo ristretto lembo di mondo la sua vita sarebbe stata un inferno, e scomparve per sempre portandosi dietro un rancore verso la comunità che non aveva comprese le possibili e normali differenze genetiche del suo essere.

Mi piace immaginare che la moderna chirurgia abbia dato soluzione al suo unico problema, che abbia vissuta e stia vivendo, da donna piena e matura, una vita felice accanto al suo uomo, e che un giorno tornerà dimentica delle ferite subite.

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