Caulonia: la ricchezza sepolta al Manganello

Caulonia: la ricchezza sepolta al Manganello

La ricchezza sepolta al Manganello.

In questo mese di agosto, se vieni a visitare Caulonia non fare il turista frettoloso che, gira e rigira, se ne torna come una carta bianca, più bianca di come è arrivato. Non devi solo guardare, la vista ce l’ hanno tutti; servono orecchie tese per ascoltare, cuore per cogliere emozioni, cervello sveglio per immaginare.

Se vieni a visitare Caulonia, chiedi, innanzitutto, dov’ è il Manganello.

Ti mostreranno un grumo di poche case vuotate, l’ una addossata all’ altra, unite come una pigna cadente per compenetrarsi, sorreggersi e farsi forza, incutersi vicendevolmente il coraggio necessario per resistere al tempo ed all’ abbandono. Ti può sembrare un tratto comune ad ogni angolo del paese per quanto sono innumerevoli i grappoli fitti delle abitazioni, mutevoli nella forme semplici e povere di una architettura pittoresca arzigogolante e nelle sfumature scarificate che li compongono, e, invece, non lo è, perché il suolo su cui sorge per noi dovrebbe essere per davvero terra di culto come quella d’ un cimitero.

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Immagina al suo posto una grande filanda. Si, proprio una filanda! Quando pensi alle filande ti viene in mente il Nord con le vecchie canzoni popolari: sbagli e di grosso! Fin dal medioevo i tessuti di seta più pregiati e sfarzosi che vestivano la nobiltà e i monarchi; gli arazzi, i velluti, i tendaggi che arredavano lussuosamente le regge, i palazzi e i castelli di tutta Europa provenivano da Como, Palermo e Catanzaro. Dalla bizantina Catanzaro, a 80 Km da noi, vicina e lontana per i percorsi accidentati del tempo. L’ arte e la maestria degli estrattori e dei tessitori avevano raggiunto una perfezione eccelsa ed il meridione superava il settentrione per ben più di una spanna.

Questa, in realtà, non era una semplice, libera filanda, ma ridotta ad un carcere dai regolamenti feudali, dall’ occhio rapace del Regio Fisco. I mastri “setai” furono costretti a chiudere le loro botteghe per portare i manganelli in questo luogo, da cui prese il nome di Manganello. Uomini liberi e onesti che per lavorare, tirare avanti la famiglia, dovevano rendersi carcerati di giorno, disporsi l’ uno di fronte all’ altro per imposizione dall’alto, per essere controllati non nella qualità del filato, la loro abilità e sapienza unite alla laboriosità erano indiscusse, ma nella quantità su cui si basava l’esosa tassa.

Immagina, dietro le grate, le caldaie fumanti, i bozzoli rotolanti, mentre i manganelli cigolanti estraevano fili di matasse candide, brillanti, di un bagliore accecante più della neve quando su di essa si specchiano intensi i raggi solari. A sera quelle matasse, ben disposte in fila, venivano pesate e consegnate nelle mani dell’arrendatore; si trasformavano in fili d’ oro bianco tant’ era la ricchezza che se ne ricavava. L’ arrendatore, l’ appaltatore della riscossione delle tasse, alle sanguisughe aveva rubato il mestiere per farne un’ arte grassa e opulenta, una ragione di vita nel lusso e nel potere che strozzava quella degli altri; era l’ architrave finanziario che sosteneva le corti, gli eserciti, le guerre.

Quel ben di Dio, quel pane strappato di bocca in cambio di qualche carlino sollevava mute maledizioni, bestemmie e imprecazioni nell’ animo delle maestranze a cui facevano eco quelle, altrettanto forti e disperate, dei contadini e dei braccianti che avevano in mano la sericoltura e furono obbligati a portare il frutto delle loro fatiche al Manganello.

Dalla valle dell’ Allaro a quella dell’ Amusa, come dalla marina alla montagna era tutto un pullulare di gelseti bianchi e neri sulle strisce di pianura delle sponde delle fiumare, sui poggi ed in ogni dove, mentre nelle case e nei casolari erano accatastati i graticci che ospitavano l’ evoluzione del baco. A primavera avanzata sulle strade lastricate con le pietre di fiumara risuonavano gli zoccoli ferrati degli asini e dei muli carichi di ceste ridondanti foglie rigogliose di gelso che, inizialmente tagliate finemente e gettate sui graticci, davano la sveglia alla schiusa delle uova. Ed era un via vai di uomini, donne e cavalcature a cogliere ed a portare foglie sui basti per nutrire le larve nel loro sviluppo fino alla salita al bosco fatto di rami secchi, dove il baco, ben lungo e cresciuto, costruiva i bozzoli più grandi e candidi dei chicchi di grandine.

Una economia diffusa e fiorente, remunerativa ed efficace nella distribuzione del reddito e del lavoro finché il commercio della seta fu monopolio degli ebrei insediati a Castelvere, poi la loro cacciata con l’editto spagnolo ed il passaggio della ricchezza e dei commerci ai feudatari, alle dinastie degli Asburgo, dei Borboni, dei Savoia umiliarono, tartassarono, impedirono quella innovazione verso l’ industria che avanzava al Nord. I nostri mastri “setai”, ristretti, non poterono introdurre macchine nuove per produrre più matasse a minor costo e reggere la concorrenza. Ed il decadimento fu progressivo, inesorabile.

Il nostro mitico Eldorado e l’ evo incamminato verso un futuro diverso ora sono li, sepolti sotto le case del Manganello.

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Se, poi, ti avventuri nelle strade e nei vicoli assolati, ammira le case che su essi si affacciano come immobili cascate di pietra che dileguano negli anfratti stretti di un labirinto ombroso e segreto. Guarda le loro linee sovrapposte e sfuggenti: i sottopassi (gafi), gli archi delle scale ripide, i ballatoi (mignani), dove sedevano le donne nelle calde sere d’estate a menare il fuso e l’arcolaio ed a raccontare le storie con le vicine; i tetti dalle tegole d’argilla rossa con i comignoli dei focolari e dei forni che all’alba dissipavano nell’ aria fumi e calore, mentre nelle vie, con il sole più alto all’ orizzonte, si diffondeva il buon odore del pane fresco, impastato la sera prima nelle madie e lievitato nella notte sui tavoli coperti dai tessuti intrecciati al telaio; i muri di pietra, le volte e le porte che mostrano il segno del tempo e s’ indorano languidi nel cremisi pallido del tramonto, quando le ombre dileguano nella quiete della sera e si fa notte per ripopolare il paese degli abitatori trascorsi. Ascolta! Raccontano momenti di vita palpitante, gemiti e lamenti sovrastati dal pianto delle madri per i figli perduti nelle carestie, nelle epidemie, nei terremoti, con le malattie, nelle guerre, e, poi, oltre gli oceani su navi a vapore, oltre le Alpi innevate e gli eterni ghiacciai, e nelle nebbie algide del settentrione. Tutti tornano nel luogo natio da dove sono partiti, e la memoria incisa nell’ imo d’ogni pietra si sveglia e continua a vagare inesausta.

Se, infine, vai nelle chiese, alte, sacre e solenni, non farti incantare dagli stucchi, dalle navate, dalle colonne, dalle volte, dagli altari, dai mausolei e dalle lapidi, sono i segni dell’inganno e della sopraffazione del potere, guarda intensamente, invece, le statue di Cristo e dei Santi per giungere al cuore della gente, alle secolari sofferenze, alle preghiere per madre natura benigna, provvida di messe dorate, che troppo spesso fu matrigna.

Dunque, noi non saremmo stati così come ci vedi, così ci hanno ridotti!

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