Benny Nonasky: racconto “La Casetta”

Benny Nonasky: racconto “La Casetta”

Racconto di Benny Nonasky per Ciavula

casa evid

.La Casetta.

a Dani, Ilario, Peppe, forse Eugenio e qualcun altro.

Quando nasci in un paesino, che sia di mare o campagna o montagna, sei destinato a una continua supervisione e giudizio dell’intera popolazione. È una cosa spontanea: che altro fare? Diviene un atto sublime osservare la vita degli altri e metterla in croce. Bisogna fare ogni sforzo possibile per esser migliore del tuo vicino; anche quando non lo si potrà mai essere, cercando qualsiasi dettaglio pur di screditarlo e renderlo mansueto. Più sei un perfezionista del pettegolezzo, maggiori saranno le tue credenziali per il rispetto della piazza e del dibattito sociale cittadino. Comunque a noi non interessava un granché. Quando nasci in un paesino dove l’unico divertimento pubblico è stare in un bar a fare battute sconce mentre si gioca a briscola e tressette, in qualche modo il diletto te lo devi cercare e – e se non sei troppo scemo o svogliato – creare.

Noi diventammo degli esploratori. Esploratori di case abbandonate. Ce n’era una che ci violentava psicologicamente. Era una casetta minuscola in mezzo a un campo abbandonato, con rovi ed erba alta. Si vedeva benissimo dalla strada, ma tutta quella sterpaglia nascondeva sufficientemente chiunque si avventurasse al suo interno. C’era una recinzione e un cancello arrugginito. Aperto. Già violato o lasciato così, scardinato dal degrado e dall’abbandono. O almeno questo credevamo. Dopo varie case in costruzione, dopo aver spaccato vetri e ricostruito la storia di gente ormai insignificante anche per il tempo e i suoi ricordi, dopo questi banchi di prova: ci aspettava solo lei. E lei era sempre lì, agghiacciante nel suo silenzio infinito. Luci non ce ne erano. Solo le nostre torce e una palla gigante in cielo. Aprimmo solo leggermente il cancello. Camminammo tenendo la testa bassa. Il cuore rimbombava in quel nero insopportabile. Si sentiva nell’aria che qualcosa era già cambiato. Come in un mondo fantastico: ormai il cancello era stato varcato e, in qualche modo, la storia mutata. La storia di quella casetta. La porta non era chiusa a chiave. Entrammo. Era un’unica stanza. A destra un gran pagliaio. A sinistra solo una cassa di legno. E in centro noi tre. C’era puzza di marcio. Veniva dal pagliericcio. C’era la morte lì dentro. Una volpe in decomposizione. Così come nella cassa: vestiti, coperte e foto di un funerale. Sfogliammo le foto. C’era un corteo. Le foto erano scattate dall’alto. Forse da un balcone. Erano in bianco e nero. Quella gente in corteo trasportava una bara aperta. Dentro una signora con gli occhi chiusi e le mani unite sul petto. Le fotografammo. Non so perché. Avevo portato una macchina fotografica e la prima cosa che feci fu scattare delle foto di quel ricordo immortalato in altre foto. Scattai anche foto al fienile e alla volpe morta. Improvvisamente sentimmo il cancello sbattere. Ci sentimmo fulminati dal terrore. Chiudemmo le torce e aspettammo. Cosa aspettavamo? Solo la morte poteva venirci a trovare lì dentro. Ma neanche lei osò entrare. Dopo alcuni minuti sentimmo nuovamente il cancello sbattere. Se ne era andata. Qualunque cosa fosse. Uscimmo senza fiatare. E non lo facemmo per tutta la notte. Fino al giorno dopo. Ormai qualcosa si era rotto. Lo potemmo solo stabilire la sera dopo. Volevamo tornarci, capire di più. Impossibile. Se fino a qualche ora prima tutto era ricoperto di rovi ed erbaccia, qualche ora dopo il fuoco aveva bruciato tutto. Ora regnava l’ordine. La casetta sembrava un piccolo castello irto nel nulla della notte. Gelammo. Qualcosa ci stava addosso. Eravamo compromessi? Quale punizione ci aspettava? Entrammo comunque. Non potevamo restarne fuori, aveva ancora qualcosa da dirci. Gelammo. Dentro non c’era più nulla. Era finita. La storia era finita. Il nostro coraggio era finito. Scomparso. Scomparse pure le foto di quel funerale. Dal rullino erano venute fuori solo robe grigie con venature nere. Nessuna traccia rimasta. Avevamo distrutto il legame di un passato che si era circoscritto in un presente eterno. Con i nostri piedi ne avevamo destabilizzato l’equilibrio. Eravamo entrati in un mondo che non era il nostro. Così morimmo. Perché in un paesino non esistono misteri e bisogna sempre trovare delle scuse per parlare. Diviene una cosa sublime osservare la vita degli altri e metterla in croce. Essere il primo a saperlo. Mentre la casetta – ogni casa – inghiotte tutto.

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