Il ruolo delle ‘ndrine gioiosane (e non solo) in Piemonte

Il ruolo delle ‘ndrine gioiosane (e non solo) in Piemonte

di Gea Ceccarelli

Fonte: http://ilcorsivocorsaro.it/4733-2/

minotauro

L’idea che la mafia al nord non esista è stata spazzata drasticamente via negli ultimi anni, grazie alle dure stoccate che le Procure e i nuclei investigativi hanno affondato alle cosche presenti sul territorio.

Tra tutte le mafie, la più radicata al nord, è la ‘Ndrangheta. Basti pensare alle inchieste Minotauro in Piemonte, La Svolta in Liguria, nonché i continui scandali in Lombardia.

Non è semplice riuscire a delineare con esattezza la mappa degli insediamenti piemontesi, tantomeno la loro genesi.

Un sistema come la ‘Ndrangheta è unitario, strutturato su più livelli, a cui fanno capo uno o più vertici. A differenza di quella piramidale di Cosa Nostra, la ‘Ndrangheta possiede una struttura interna orizzontale, che poggia sui membri di un nucleo famigliare, le ‘ndrine. Più ‘ndrine si fondono quindi in una “locale” che gestisce il potere in una determinata zona geografica esterna alla Calabria.

Ogni locale ha un capo, un contabile e una commissione denominata Crimine, ed è strettamente collegata con l’Onorata Società di Reggio Calabria, con cui, nonostante la propria autonomia, continua a mantenere un rapporto speculare e filiale.

Negli anni cinquanta, favorita dall’emigrazione meridionale, la ‘ndrangheta ha avuto modo di espandersi al nord. Ma, come spiega anche il professor di Criminologia Federico Varese dell’Università di Oxford nel suo libro “Mafie in movimento”, sarebbe troppo semplicistico limitarsi ad un discorso di flusso migratorio: è essenziale considerare il fenomeno non come causa, ma come potenziale. L’emigrazione meridionale ha dato solo la possibilità di ampliamento dell’organizzazione, grazie ai membri che si trasferivano nelle regioni settentrionali, l’effettivo radicamento mafioso è stato dettato invece dalle condizioni fertili che alcune zone del nord presentavano, quali i mercati locali non ben regolati. Questo spiega inoltre perché stessi livelli di immigrazione nelle diverse regioni non abbiano prodotto un fattore criminale d’uguale intensità.

Vennero così a crearsi le locali su territorio piemontese. Durante l’ormai nota operazione Minotauro ne furono scoperte una decina, tra attive e passive. La differenza è che una locale attiva può godere dell’approvazione dei vertici della ‘ndrangheta, in sede calabra.

ndrangheta-al-nord

Si suddividono in:

Locale di Cuorgnè, attivata dalla cosca Bruzzese di Grotteria, dalle ‘ndrine Callà di Mammola, Ursino-Scali di Gioiosa Ionica e Casile-Rodà di Condofuri.

Locale di Volpiano, creata dalla cosca Barbaro di Platì e composta da uomini delle ‘ndrine Trimboli-Marando-Agresta e Barbaro di Platì.

Locale di Rivoli, passiva, era stato attivata dalla ‘ndrina Romeo di San Luca.

Locale di Natile di Careri a Torino, attiva, formata dai Cua-Letto-Pipicelli.

Locale di San Giusto Canavese, attivata dalla ‘ndrina Spagnolo-Varacalli di Ciminà e Cirella di Platì e formata da elementi degli Ursino-Scali di Gioiosa Ionica, Raso-Albanese di San Giorgio, Morgeto e Spagnolo-Varacalli di Ciminà e Cirella di Platì.

Locale di Siderno a Torino, creata dalla cosca Commisso di Siderno e formata da personaggi delle ‘ndrine di Siderno e Cordì di Locri.

Locale di Chivasso, attivata dalla cosca Gioffrè-Santaiti di Seminara e composta dai Serraino di Reggio Calabria e Cardeto, Bellocco-Pesce di Rosarno, Gioffrè-Santaiti di Seminara, Tassone di Cassari di Nardodipace, e comandata da Pasquale Trunfio.

Locale di Moncalieri attivata dalla cosca Ursino di Gioiosa Ionica e formata dagli Ursino-Scali di Gioiosa Ionica ed Aquino-Coluccio di Marina di Gioiosa Ionica.

Locale di Nichelino, attivato dai Belfiore di Gioiosa Ionica e formata da elementi dei Bonavota di Sant’Onofrio e del Vibonese e Belfiore di Gioiosa Ionica.

Locale principale di Torino “dei gioiosani” attualmente passiva. Era stata attivata dalla cosca Mazzaferro di Marina di Gioiosa Ionica e formata dagli stessi Mazzaferro, dalla ‘ndrine Belfiore di Gioiosa Ionica, Crea-Simonetti di Stilo e Ruga di Monasterace.

Il primo ottobre 2009, a seguito di una scissione interna, nacque poi la locale di Livorno Ferraris, comandata da Pasquale Maiolo.

Infine, secondo le intercettazioni raccolte durante l’inchiesta, esisterebbe una locale distaccata, definita “’ndrina bastarda”. Si occupa del territorio tra i comuni di Salassa, Rivarolo Canavese, Castellamonte, Ozegna, Favria e Front.

Tutti le locali si riuniscono annualmente nella “Riunione di Polsi”, un incontro tra i boss diffusi su territorio nazionale e internazionale, che si svolge al Santuario della Madonna di Polsi, a San Luca, nei primi giorni di settembre. L’aspetto interessante delle locali in territorio settentrionale è il loro radicamento originariamente limitrofo alla città; i nuclei non hanno aggredito fin da subito Torino, in quanto la capacità dell’organizzazione dipende dal controllo che essa può esercitare. Governare dapprima i comuni più piccoli significa condizionarne la politica, rafforzandosi ed inserendosi all’interno del mercato edile, vera prerogativa dell’Onorata Società.

Per i primi decenni, comunque, la ‘ndrangheta al nord -e in Piemonte nello specifico-, fu sottovalutata, foss’anche solo per il basso profilo che essa manteneva. Furono gli anni settanta, quelli d’oro per l’organizzazione criminale. Cominciarono i rapimenti, e i media presero a rivolgere l’attenzione sugli eventi che colpivano il paese, derivati da quell’ “Anonima Sequestri Calabrese” che poi sarebbe la ‘Ndrangheta.

Sino a quel periodo, la presenza tangibile delle mafie in Piemonte era limitata a Cosa Nostra, come spiega il professor Sciarrone, nel libro “Mafie vecchie, mafie nuove”. Erano i Catanesi a governare le operazioni illegali della regione, finchè i Calabresi non riuscirono a configurarsi come prima potenza mafiosa sul territorio, occupando di fatto tutti i campi che la criminalità siciliana non riusciva ad avvicinare. A seguito di un’alleanza tra Calabresi e Catanesi, Torino e provincia divennero inevitabilmente feudo delle famiglie d’onore.

Caccia
Il procuratore Bruno Caccia, ucciso dalla ‘ndrangheta a Torino
Una situazione grave, che denunciava un altissimo livello di corruzione da parte dei piemontesi, una contesto insostenibile che cominciò a emergere. Furono molti coloro che tentarono di occuparsi del fenomeno. Su tutti, preme ricordare Bruno Caccia, ucciso nel 1983 dai Belfiore. Al riguardo, vi era stato un accordo tra Catanesi e Calabresi. I primi avrebbero dovuto eliminare il magistrato Sebastiano Sorbello, i secondi il procuratore Caccia, che stava indagando a fondo sulla ‘ndrangheta in Piemonte.

bruno-caccia

Compiendo l’omicidio celebre, i Belfiore divennero il punto di riferimento delle cosche sul territorio, la più potente ‘ndrina piemontese, sebbene, ufficialmente, il potere assoluto lo detenesse Mario Ursini (con la i finale, frutto di un errore dell’anagrafe, che nasconde il cognome più temibile “Ursino”). Secondo le dichiarazioni rilasciate dal collaboratore di giustizia Giuffrida, la famiglia Belfiore, comandata dai due fratelli Domenico e Salvatore, poteva vantare amicizie all’interno delle autorità statali e tra i magistrati, quali per esempio lo stretto rapporto intessuto con il Procuratore di Ivrea Luigi Moschella.

A cavallo degli anni ’80 e ’90, la famiglia, alleata con gli Ursino, comandò interamente il territorio torinese e furono oltre trenta gli omicidi che si consumarono all’ombra della Mole. Il motivo di tale mattanza è da ricercare principalmente nella faida che esplose contro i Saffiotti per il controllo delle bische clandestine, che si risolse solo nel 1992 con l’omicidio, da parte di Salvatore Belfiore, di Saverio Saffiotti.

A seguito degli assassinii e di svariati processi, il potere dei Belfiore-Ursino, andò a calare. La ‘ndrangheta torinese si frantumò. Calò nuovamente il silenzio sul fenomeno mafioso in Piemonte, finchè, nel 2001, non comparvero Adolfo e Aldo Cosimo Crea, originari di Lucri, che, grazie alla ferocia, riuscirono a scalare le gerarchie ‘ndranghetiste. A Torino era un periodo difficile per l’Onorata Società, priva di un vero sostegno. Mario Ursini era in carcere, da cui sarebbe uscito solo nel 2006, avvalendosi dell’indulto.

A Volpiano, Pasqualino Marando, il nuovo re, narcotrafficante di livello internazionale, colonna del triumvirato Marando-Agresta-Trimboli, era appena stato assassinato, probabilmente proprio dal fidato Rocco Trimboli. E la ‘ndrina era protagonista, assieme agli Stefanelli, di una sanguinosa faida.

I Crea decisero di sfruttare il momento critico per inserirsi nel panorama malavitoso piemontese. Si appoggiarono a Vincenzo Argirò, che deteneva il controllo dei videopoker a Settimo, Leinì e Brandizzo. Riuscirono poi a entrare in affari con Luciano Ursino, il nipote di Rocco Lo Presti, il padrino di Bardonecchia, che permise loro, anche grazie il favoreggiamento di alcuni agenti delle forze dell’ordine, di acquisire il controllo del racket del territorio. Trovarono infine sostegno in Giuseppe Belfiore, fratello di Domenico e Salvatore; grazie a lui si appropriarono del controllo di tutte le bische clandestine di Torino. E, per il controllo di queste, s’inimicarono Renato Macrì, nipote di Mario Ursini.

La tensione a Torino era altissima; una guerra di mafia era imminente. L’operazione “Gioco Duro” fece scattare le manette attorno ai polsi dei fratelli Crea e di Giuseppe Belfiore, ristabilendo l’equilibrio nel capoluogo.

Adolfo e Aldo Cosimo Crea rimasero in carcere, a Bologna, per due anni. Da dietro le sbarre continuarono comunque a influenzare la Torino ‘ndranghetista, e si guadagnarono l’appoggio del boss di San Luca, Giuseppe “Gambazza” Pelle.

La cosa non piacque agli affiliati dei clan concorrenti. Su tutti, Giuseppe Gioffrè.Quando, nel 2008, questi aprì una bisca clandestina a Leinì, i fratelli Crea si fecero vivi per chiedere la loro parte. Ne conseguì una frattura: pochi mesi dopo Gioffrè venne trovato morto, a Bovalino, in Calabria. Lui, che era stato il tramite tra l’Onorata Società e l’impresario Nevio Coral, il sindaco di Leinì. A Coral, Gioffrè aveva promesso la protezione dei cantieri in cambio di appalti e insediamenti.

coral
Nevio Coral è una figura emblematica nel rapporto ‘ndrangheta-politica. Imprenditore a capo di un gruppo industriale attivo nel nord Italia e all’estero, è stato sindaco di Leinì per diciassette anni, prima di passare lo scettro al figlio Ivano e tentare di occupare la poltrona di primo cittadino a Volpiano, il paese confinante. Un altro suo figlio, Claudio, è il marito di Caterina Ferrero, l’ex assessore regionale alla Sanità, arrestata nell’ambito di un’inchiesta sulla corruzione. Secondo il riesame, inoltre, il suocero le permise, tramite i contatti con la ‘ndrangheta, di vincere le elezioni ed essere eletta nella giunta Cota.

Il braccio destro di Coral, Piero Gambarino, oltre ad essere uno stretto collaboratore della Ferrero, sarebbe stat socio di Achille Berardi (ritenuto affiliato alla locale di Cuorgnè) e Valerio Ierardi (ritenuto affiliato alla “bastarda”). Il trio, infatti, possdeva la società “Sport nel Canavese S.r.l”, che avevain gestione dal 2007 il centro polisportivo “Palalancia” di Chivasso, su cui Gambarino, socio di maggioranza, effettuò alcune opere edili di rinnovamento.

Nel 2009, Nevio Coral era consigliere comunale di Leinì e cercava di fare propaganda per il figlio Ivano, candidato alle provinciali per il Pdl.

Era il 18 maggio: l’ex sindaco si mise in contatto con Vincenzo Argirò chiedendogli un incontro, fissato per due giorni dopo, il 20, presso il ristorante di suo figlio Claudio.

Alla cena, oltre i due, parteciparono: Vicenzo Todarello, Antonio Ruperto, Emilio Gallo, Eduardo Cataldo, Gioacchino Giudice e Massimiliano Lastella. “Imprenditori”, come li chiamò Coral, incriminati a vario titolo per porto abusivo d’armi, ricettazione, favoreggiamento, rapina, estorsione, minacce, lesioni, traffico di stupefacenti. Lo scopo della serata divenne ben chiaro, di fronte le parole dell’ex sindaco: “Quando le strade si fanno, i lavori si fanno, gli appalti vanno avanti …(inc)…, le cose si fanno, allora se questo principio lo adottiamo…su un gruppo che… e innanzitutto prendiamo uno lo mettiamo in Comune, l’altro lo mettiamo nel consiglio, l’altro lo mettiamo in una proloco, l’altro lo mettiamo in tutta altra cosa, magari arriviamo che ci ritroviamo persone nostre che… (sembra dica: non ce le facciamo togliere dagli altri)…e diventiamo un gruppo forte”. Coral sembra stesse comprandosi i voti della comunità calabrese, in cambio di posti di lavoro. Il costo dell’affare? 24milaeuro. La cifra che l’imprenditore dirottò sui conti dei calabresi, adducendo come motivazione il pagamento di un’attività divolantinaggio pre-elettorale.

Ma non è solo questo a far storcere il naso agli inquirenti.In un’altra intercettazione, Bruno Iaria, affiliato alla locale di Cuorgnè, affermò che suo zio,Giovanni, avrebbe ottenuto dal sindaco di Leinì degli appalti, in cambio del sostegno elettorale del clan. Questo accordo avrebbe permesso a Coral di non pagare il pizzo e al gruppo di utilizzare il nome dell’imprenditore come “biglietto da visita”.

Giovanni Iaria è un nome noto alle cronache. Quando giunse in Piemonte, negli anni sessanta, era un semplice apprendista muratore. In pochi anni, assieme al fratello Carmelo, riuscì a creare un’impresa edile, una delle più importanti del canavese, che dava lavoro a quasi tutti i calabresi della zona. Nel 1975, Giovanni Caggegi, imputato con l’accusa di aver ucciso a bastonate l’industriale Mario Ceretto, affermò che il mandante dell’assassinio fu proprio Iaria. Il movente è da ricercare nel litigio che intercorse tra i due: Ceretto, liberale, rifiutò di inserire il presunto ‘ndranghetista nella sua lista elettorale; Iaria spostò il pacchetto di voti sul Psi. Partito che lo accolse più che volentieri: egli divenne così assessore allo Sport e al commercio nella giunta di Bosone.Nel ’79, però, Giovanni Iaria venne arrestato. Dovette rispondere dell’accusa di truffa, bancarotta e falsificazione di libri contabili in merito alla gestione della cooperativa “Aurora” di Borgaro. Per gli stessi fatti fu fermato anche il futuro leghista Mario Borghezio che, secondo La Stampa del 3 maggio 1980, invece di assistere come legale gli amministratori della cooperativa, partecipava agli utili dell’impresa truffaldina.

Oltre ai rapporti che intratteneva con il nipote del boss di Cuorgnè, Coral era in grado di gestire gli appalti pubblici tramite un’altra impresa, la Provana s.p.a, a capitale pubblico, ma privata a tutti gli effetti. Gli appalti, affidati alla municipalizzata, venivano assegnati, il più delle volte, alla “Canavesana Costruzioni” di Urbano Zucco, figlio del capolocale di Natile di Careri a Torino.

Il caso di Nevio Coral non è che uno dei tanti, il più noto. Ma a Rivoli, Salvatore Demasi, capo locale della cittadina, venne contattato da più politici del centrosinistra, che avrebbero voluto attingere dal suo bacino elettorale. Allo stesso modo, a Rivarolo Canavese, il segretario comunale di Fabrizio Bertot, Antonino Battaglia, è stato arrestato per aver “sponsorizzato” la candidatura del sindaco alle europee del 2009. Battaglia si era raccomandato con il boss Giuseppe Catalano affinchè la comunità calabrese votasse per il primo cittadino.A Chivasso, alle ultime elezioni, vinse il candidato del Pd De Mori. Decisiva per lui, l’alleanza con l’Udc. Non fosse che il coordinatore della campagna elettorale, vicesegretario dell’Udc, era Bruno Trunfio, figlio del capolocale Pasquale. Il boss, residente a Torrazza, è titolare di una ditta edile: “Trunfio & Figli Costruzioni S.a.s”, che fu commissionata per innumerevoli lavori nel torinese. Nei riguardi del figlio Bruno, ex assessore ai lavori pubblici ai tempi dell’allora sindaco chivassese Fluttero, il tribunale del riesame annullò l’ordinanza restrittiva, pur mantendendolo imputato con l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso, per la quale poi è stato condannato.

Il politicante, ad ogni modo, rimase poco nelle fila del primo cittadino: uno scandalo lo travolse, costringendo Forza Italia ad allontanarlo. Venne sostituito rapidamente, dopo che emerse la vicenda di un abuso edilizio commesso nella sua villa di Lauriano, paese dove il padre poteva vantare numerosi contatti di lavoro e amicizia.

Ma perchè l’edilizia è tanto importante per la ‘ndrangheta?

Essa permette di dare lavoro a diverse persone, fare soldi o, semplicemente, farli girare e ricicarli. Per fare l’imprenditore edile non sono necessari titoli di studio né fedine penali pulite. Inoltre, porre le mani sull’edilizia significa governare un territorio, attraverso scambi di favori con la politica.L’8 giugno del 2011, tutto questo emerse in modo dirompente: l’operazione Minotaurofece scattare le manette attorno ai polsi di 150 persone. Ma l’inchiesta nasceva dal ben più lontano 2003, in seguito ad alcuni accertamenti riguardo l’omicidio, avvenuto a Grugliasco, di Giuseppe Donà. Le indagini avevano svelato che la vittima era coinvolta in traffici internazionali di droga. In questo contesto, vennero arrestate numerose persone, tra cui Rocco Varacalli.

rocco-varacalli
Nell’autunno del 2006, Varacalli decise di pentirsi e collaborare con la giustizia, affidandosi al pm Sparagna. Era detenuto da cinque mesi. Il verbale di quel 25 ottobre è il documento della svolta che il ‘ndranghetista s’impegnò a compiere: “Intendo rispondere e collaborare con la giustizia. Ho effettuato questa scelta in quanto ho deciso di cambiare vita dopo18 anni trascorsi nell’illegalità. La mia decisione in tal senso è di intraprendere un’esistenza onesta e corretta. Prendo atto che devo rendere una dichiarazione completa nulla tralasciando e nulla trascurando.”

Il motivo? A suo dire: “L’ndrangheta mi ha tradito. Ero orgoglioso di essere un affiliato. Pensavo che fra calabresi fosse giusto aiutarci. Ero un uomo di rispetto, ospitavo i parenti dei carcerati che salivano al nord. Ma hanno iniziato ad infangarmi.” E ancora: “Mi son detto: ‘Perché devo continuare a fare il mafioso se gli altri non rispettano le nostre leggi?’”Per quattro anni le sue dichiarazioni sono state raccolte dagli inquirenti; più di quattrocento nomi di affiliati all’Onorata Società sono stati citati dal collaboratore di giustizia.Grazie al suo contributo fu fatta luce sull’omicidio Donà e su quello Roberto Romeo, odontotecnico di Rivalta ucciso nel 1998. Varacalli è imputato tutt’ora dell’omicidio di Alberto Corona, un pastore di vent’anni, ammazzato a Serdiana. Il pentito, però, ha sempre negato con decisione il delitto, nonostante l’idea di uccidere non lo disturbi: “Per me era una gioia. Solo l’idea mi faceva sentire importante. Tante volte ho puntato la pistola alla testa di personaggi poco corretti”.

La sua scelta di collaborare, secondo la Procura era “talmente genuina che egli si autoaccusa di reati che non gli sono maistati contestati”. Per cui, è credibile. “Non si spiegherebbe altrimenti”, come annotava il gip Salvadori, “il comportamento della famiglia all’indomani della pubblicazione delle rivelazioni dell’ex affiliato”.In seguito, infatti, ad alcune dichiarazioni di Varacalli nell’ambito del procedimento battezzato “Stupor Mundi”, i parenti del pentito scrissero una lettera contro l’uomo: “Non siamo più la sua famiglia. Non è degno come non lo è mai stato di dire che fa parte di una famiglia pulita e onesta come la nostra. Non abbiamo parole davanti a un elemento del genere. Sta cercando di distruggere e logorare la nostra famiglia e le famiglie altrui, ma non glielo permetteremo. Sta cercando di gonfiare tutto per rendersi credibile agli occhi della legge”.

La famiglia ne prese le distanze, la ‘ndrangheta lo minacciò. Non per questo tacque. Poi, a settembre del 2012, sfiancato dalle pressioni, fuggì dai domiciliari e si recò a casa del suocero, in Piemonte. I carabinieri lo rintracciarono una settimana prima del dibattimento in aula del processo Minotauro, in cui era chiamato a testimoniare in qualità di pentito chiave, assieme a Rocco Marando.

Lui, Marando, lo chiamano “Il pentito dei bunker”. Grazie al suo contributo nell’inchiesta Minotauro ne ha fatti trovare sei: nascondigli per la latitanza di ‘ndranghetisti, edificati sottole dimore dei suoi parenti. Non è sempre d’accordo con Varacalli, specialmente quanto riguarda la morte di Roberto Romeo. Secondo Varacalli, infatti, il mandante dell’omicidio fu Domenico Marando. Il pentito di Volpiano, invece, sottolinea che fu l’altro suo fratello, Pasquale, ad ordinare il delitto. Il gip, però, rileva che i due superpentiti hanno versioni spesso coincidenti per quanto concerne il riconoscimento di personaggi e il riferimento di eventi. Marando permise di far luce su vittime di “lupara bianca”, come quella di Francesco Mancuso, e sulla faida contro gli Stefanelli, colpevoli di avergli ucciso il fratello Francesco.Pochi giorni prima della fine dell’inchiesta, Rocco Marando cedette: non riuscì più a reggere la tensione derivante dal suo stato di collaboratore di giustizia e fuggì. I carabinieri lo ritrovarono la notte del 7 giugno 2011, a Volpiano, dopo che aveva distrutto con l’auto la vetrina di un bar gestito dagli Agresta. Il mattino seguente, l’8 giugno, quasi 150 affiliati alla ‘ndrangheta vennero arrestati. L’operazione Minotauro divenne attualità

CATEGORIES
Share This