Il piccante orgoglio di Calabria: tutto quello che dovete sapere sulla ‘nduja

Il piccante orgoglio di Calabria: tutto quello che dovete sapere sulla ‘nduja

Fonte: La Repubblica

Autore: MAURIZIO AMEDEO ULIANO

DA SALUME povero a simbolo della gastronomia calabrese, la ‘nduja ne ha fatta di strada. Un prodotto quasi esclusivamente locale, conosciuto solamente a Spilinga, provincia di Vibo Valentia, che solo negli ultimi venti anni è riuscito a varcare i confini regionali. Eppure si tratta di un alimento con una lunga storia, tanto che le prime tracce portano all’Ottocento.

Origine poverissima: il grasso, in quell’epoca, era usato per fare strutto e sapone; solo alcuni ritagli di pancetta, uniti alle parti meno nobili della testa, erano destinati alla ‘nduja (se ne faceva solamente una per ogni maiale macellato).

Anche l’etimo potrebbe risalire a quel periodo, con possibile derivazione da andouille; l’ipotesi trae fondamento dalla presenza dell’esercito napoleonico in Calabria ed è rafforzata dal fatto che, nel dialetto di Spilinga, la lettera j si pronuncia alla francese, per cui si dice “’ndusgia”. L’andouille, insaccato francese a base di trippe (e non solo) di maiale, ricorda però un altro prodotto di tradizione familiare ormai quasi completamente scomparso, la ‘nduglia o ‘ndugghia, tipico di altre aree calabresi.

Si tratta di un insaccato a base di interiora di maiale che, una volta stagionato, viene tagliato a fette, lessato, fatto a pezzetti e usato per insaporire le minestre (di finocchio selvatico, di verza, di fagioli). La ‘nduja di Spilinga, invece, contrariamente a quanto si legge in giro per il web, non ha mai previsto l’utilizzo di interiora perché considerate troppo pregiate!

LA ‘NDUJA OGGI
Fin qui la storia. Oggi la ‘nduja è prodotta in tutta la regione, si trova in Italia e all’estero e contende al ciauscolo marchigiano il primato tra i salumi spalmabili del Paese. Demonizzata dai dietologi per il suo tenore di grassi, inadatta a palati poco inclini al piccante, amata da tutti gli altri. Ma paradossalmente proprio il successo commerciale è il suo peggior avversario: la quantità prodotta aumenta, la qualità media diminuisce. Non resta che affidarsi a un pugno di artigiani di valore e a qualche chef di talento.

Luigi Caccamo è il maggior produttore di Spilinga, guida un’azienda con dieci dipendenti, ha un ristorante aperto nei mesi estivi ed è la memoria storica di questo prodotto, sul quale sta addirittura scrivendo un libro: “Ho imparato l’arte da mia suocera, che a sua volta l’ha appresa dalla mamma e dalla nonna. Oggi metto a frutto gli insegnamenti, soprattutto per quello che riguarda la selezione delle materie prime”. Che poi sono solamente due: la carne e il peperoncino.

“Non è facile trovarne di buona qualità, specialmente se ogni anno produci tanta ‘nduja come facciamo noi. Per questo siamo costretti a prendere la carne in Emilia, mentre per il peperoncino, che essicchiamo e maciniamo in azienda, ci riforniamo principalmente su tutto il territorio regionale e, quando non basta, nel resto dell’Italia meridionale”.

La Calabria è considerata la patria del peperoncino e sull’altopiano del Monte Poro, dove sorge Spilinga, se ne coltiva di ottimo. La produzione è però insufficiente e questo pesa particolarmente anche sulla definizione di un disciplinare di produzione (le regole che sono alla base del riconoscimento delle denominazioni DOP o IGP) che tarda ad arrivare.

· LA RICETTA: DAGLI INGREDIENTI AL CONFEZIONAMENTO
La “ricetta” della ‘nduja, l’abbiamo detto, è semplice. La sua realizzazione è però complessa: il gioco di equilibri tra carne magra e grassa, tra peperoncino dolce e piccante e tra carne, peperoncino e sale è reso complicato dal grado di piccantezza, che varia in maniera sensibile anche tra frutti nati dalla stessa pianta. L’artigiano non può seguire dosi precise e quindi ad aiutarlo, più che la bilancia, sono l’esperienza e l’assaggio.

A suo vantaggio l’inutilità di aggiungere conservanti di qualsiasi tipo: è la funzione battericida del peperoncino a garantire la sicurezza alimentare. Proprio certi eccessi sono il tallone d’Achille della ‘nduja. Sempre più spesso sugli scaffali arrivano salumi decisamente squilibrati, in cui la quantità di capsaicina (la sostanza che determina il grado di piccantezza) è tale da coprire il sapore della carne e da anestetizzare il palato per tutto il pasto.

Non è, come si potrebbe pensare, una scelta fatta per ridurre i costi: il peperoncino, infatti, è molto più caro della carne. L’impressione è che, da un punto di vista commerciale, si voglia assecondare l’equazione Calabria=Peperoncino, finendo per eccedere e raggiungendo risultati che a volte sconfinano nella caricatura o che, ancora peggio, servono a mascherare difetti di produzione.

Il segreto di una buona ‘nduja, invece, sta proprio nel corretto equilibrio tra le sue componenti. Si tratta però di una condizione necessaria ma non sufficiente a ottenere un salume perfetto: un ruolo importante, infatti, lo gioca la lavorazione tempestiva della carne, che serve a evitare l’irrancidimento del grasso (difetto piuttosto comune nei prodotti di basso livello).

Poi arriva il momento del confezionamento all’interno dell’orba (l’intestino tenue del maiale, utilizzato per i salumi di pezzatura più grande, che sono considerati i migliori). In alternativa si usa il crespone, un budello più sottile, adatto a ‘nduje di piccolo taglio. “La fase di insacco è completamente manuale”, racconta Caccamo. “Ognuno dei miei artigiani lega la ‘nduja a modo suo ed io sono capace di capire chi l’ha fatta anche a distanza di tempo!”.

La stagionatura dura dai 45 ai 90 giorni e serve principalmente a far asciugare l’impasto che, grazie all’elevata percentuale di materia grassa, resta sempre morbido. Alcuni artigiani aggiungono un’ulteriore nota organolettica per mezzo di una lieve affumicatura che contribuisce alla rotondità del gusto. La ‘nduja non si produce solo a Spilinga, anche se è proprio qui che si concentra un buon numero di artigiani di qualità.

Ad Acri, ai piedi della Sila, si trova invece l’azienda della famiglia Romano (papà Angelo, primario ospedaliero in pensione e i suoi due figli, che hanno smesso di fare i commercialisti per dedicarsi ai salumi). La loro è un’attività di piccole dimensioni e che per questo può permettersi una filiera cortissima: suini neri calabresi allevati in casa e nutriti con i cereali prodotti in azienda, peperoncino dolce e piccante coltivato nei terreni di proprietà, macchinari di dimensioni ridotte (al massimo 60 kg di impasto alla volta, per evitare che si scaldi durante la preparazione). La fase di produzione è rapida: dal momento del macello all’inizio della stagionatura non passa più di una settimana.

I Romano producono un’ampia gamma di salumi e la carne magra usata per la ‘nduja proviene proprio dagli sfridi delle altre lavorazioni. A essi si aggiungono pancetta, guanciale, lardo e, ovviamente, peperoncino. “Al 90% si tratta di peperone dolce, coltivato ben distante da quello piccante, per evitare problemi durante l’impollinazione delle piante”, ci racconta Angelo. Cura certosina ripagata da un ottimo riscontro di clienti e, nel 2015, dal premio assegnato dagli studenti dell’Alma, il centro di formazione fondato da Gualtiero Marchesi.

LA NUOVA VITA DELLA ‘NDUJA IN CUCINA
Il successo della ‘nduja passa anche per la sua riscoperta da parte degli chef. Da questo punto di vista è impossibile dimenticare la Locanda di Alia, ristorante di Castrovillari che ha fatto da apripista per l’alta ristorazione calabrese e che, da almeno vent’anni, mantiene in carta le sue candele alla ‘nduja.

“Preparo una salsa con pomodori e cipolle presi al mercato e la profumo con menta e alloro. Quando è pronta aggiungo la ‘nduja facendola sciogliere a fuoco spento, manteco la pasta nel condimento e alla fine spolvero con ricotta affumicata o pecorino semistagionato”, ci racconta Gaetano Alia che raccomanda di non cuocere mai il salume ma soltanto di scaldarlo, in modo tale da facilitarne il disfacimento.

Il piatto del ristorante è la rivisitazione di una tradizionale pietanza domenicale, i maccheroni al ferretto con ragù di maiale e ‘nduja. Nella cucina casalinga, del resto, il salume trova molti altri usi: nella zuppa di fagioli, spalmato sulle bruschette, mischiato con la ricotta di pecora, nell’insalata di pomodori maturi arricchita da altri due prodotti simbolo degli orti calabresi come origano e cipolla di Tropea.

· PRESENTE ANCHE NELLO STREET FOOD
Il gusto deciso della ‘nduja è protagonista anche nel mondo dello street food: calzoni, panzerotti, crocchette di patate, arancini, supplì, pizze. A proposito di impasti lievitati, citazione d’obbligo per la Pizza Calabrese che Stefano Callegari propone a Roma da Sforno, bilanciando le note grasse e piccanti del salume con quelle amare e balsamiche della liquirizia.

Il massimo della creatività è però quello di Luca Abbruzzino, enfant prodige della cucina calabrese che nel suo locale di Catanzaro propone i fusilloni con ricci di mare, ‘nduja e pecorino. “Metto a bollire la ‘nduja in una pentola e il pecorino in un’altra. Dopo una notte di infusione filtro le acque, le unisco e ci cuocio la pasta. Una volta pronti, manteco i fusilloni e solo a quel punto aggiungo ricci di mare, pomodorini confit e basilico”.

Piatto davvero straordinario, in cui il sapore del salume è nitido ma, allo stesso tempo, non prevaricante. “La ‘nduja ce la prepara un macellaio di fiducia. E’ poco piccante, la sua funzione è quella di esaltare gli altri sapori, non di coprirli”. In abbinamento lo chef consiglia un pecorello, vitigno bianco autoctono capace di dare vini di buona struttura. Per usi più tradizionali, invece, si può puntare su un altro vitigno locale, questa volta rosso, come il magliocco o scegliere un classico calice di bollicine. Abbruzzino propone anche un ottimo pane impastato con la ‘nduja e, nel periodo autunnale, un’emulsione che accompagna i funghi porcini.

Passato e presente, tradizione e innovazione. La ‘nduja è tutto questo e non bisogna rischiare di rovinarla. Eccessi di peperoncino, utilizzo di grassi poco nobili, scarsa selezione della materia prima e rallentamenti produttivi che ne pregiudicano la freschezza sono difetti che si riscontrano sempre più spesso.

“Possiamo anche pensare di rendere il packaging più accattivante, come stanno facendo alcune aziende, ma credo sia  più importante concentrarsi sulle cose che contano davvero” ci dice Luigi Caccamo prima di concludere con un filo di amarezza: “tra cinque o dieci anni, se non facciamo sistema, il successo della ‘nduja sarà solo un ricordo”.

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