Intervista ad Abdoulaye, il mediatore culturale “cauloniese” che arriva da lontano

Intervista ad Abdoulaye, il mediatore culturale “cauloniese” che arriva da lontano

Migranti”, “stranieri”, “clandestini”.

Espressioni usate da uomini per definire altri uomini, parole che marcano confini territoriali e culturali, che generano ed alimentano differenze.

Dei migranti si parla spesso in termini astratti, addirittura numerici: quanti ne sono arrivati, quanti sono sopravvissuti al viaggio, quanti invece non ce l’hanno fatta.

Quando però le congetture astratte si incarnano in una storia vera, di vita vissuta, tutto cambia: si smette di pensare e si comincia a sentire. Se il pensiero divide, la sensazione unisce; così ci sentiamo tutti un po’ più simili, tutti semplicemente esseri umani.

L’idea di raccontare la storia di Abdoulaye nasce dall’intenzione di far conoscere determinate esperienze, quasi sempre drammatiche e per noi difficili anche solo da immaginare, attraverso la testimonianza diretta di chi le ha vissute in prima persona, sulla propria pelle.

Avevo preparato delle domande, ma non sono servite: quella che immaginavo sarebbe stata un’intervista è diventata una chiacchierata senza filtri; si è trattato di un’esperienza estremamente intensa e significativa per me e per le due ragazze con cui ho collaborato, Chiara Mallamo e Chiara Maiolo, alle quali va la mia gratitudine.

Di seguito, riporterò il contenuto della conversazione.

Ciao Abdoulaye. Da dove parte la tua storia?

Ciao a tutti. Io sono Abdoulaye, vengo dal Senegal, ho lasciato la mia famiglia nel 2009. La mia infanzia è stata particolare: quando avevo quattro anni, sono stato affidato dalla mia famiglia di origine ad un’altra famiglia, con cui sono cresciuto e che mi ha consentito di andare a scuola. Non parlavano il mio stesso dialetto così, quando sono tornato a casa mia dopo qualche anno, mi sentivo un estraneo e non riuscivo a comunicare.

Perché sei stato affidato ad un’altra famiglia?

I miei genitori vivevano in un villaggio, purtroppo in Africa i villaggi non sono molto evoluti e non ci sono le scuole. Così, mio padre ha deciso di affidarmi alla famiglia di un suo caro amico che viveva in città, per garantirmi la possibilità di ricevere un’istruzione.

Dopo qualche anno, finita la scuola, sono tornato al villaggio presso la mia famiglia di origine ma, come dicevo, avevo difficoltà a comunicare.

Dopo cosa è accaduto?

In Africa si è costretti a crescere in fretta, ben presto ho iniziato ad interrogarmi su diverse cose. Avendo vissuto sia in città che nel villaggio, potevo cogliere la differenza tra le due realtà: non condividevo diversi aspetti della vita nel mio villaggio, facevo continuamente domande che spesso risultavano scomode e poco gradite. Osavo troppo, per un bambino che avrebbe solo dovuto obbedire.

Mia madre per proteggermi mi diceva: “Abdoulaye, non fare troppe domande, qui le cose vanno così”. Ma crescendo acquisivo maggiore consapevolezza, e mi ribellavo all’idea che qualcuno dovesse comandare e decidere per noi.

Purtroppo per questa ragione ho avuto dei problemi con la mia famiglia e all’interno del villaggio, sono stato minacciato diverse volte.

Quindi, sei partito perché il tuo desiderio di ribellarti a quel sistema e la tua capacità di vedere cose che non volevano tu vedessi, ti ha messo in una posizione scomoda?

Sì, perché ho capito che per stare meglio ed aiutare mia madre non potevo più restare lì, dove rischiavo la vita.

Nel giugno del 2010 sono partito con l’obiettivo di arrivare in Libia, ma per arrivarci ho dovuto attraversare il Mali e la Nigeria, dove c’era la guerra. Nel deserto tra Mali e Nigeria i ribelli ci sparavano addosso. E’ stato terribile: un conto è vedere scene di guerra in tv, altra cosa è vedere dietro di te uomini armati che ti sparano.

In quei momenti perdi tutto il controllo, non sai cosa fare, provi solo paura.

Sai che se una bomba ti sfiora, sei morto. Se ti fermi, sei morto.

Non ti resta che pregare Dio e continuare a camminare, sperando di riuscire a sopravvivere.

Per arrivare in Nigeria abbiamo viaggiato in condizioni pessime: venti persone in un 4×4, si respirava a malapena. Lungo la strada, attraversando le zone di combattimento, si vedevano i corpi di persone morte, ed il timore di essere attaccati era costante.

Arrivato in Algeria ho trovato una situazione caldissima, perché in quel periodo gli stranieri venivano arrestati o rimandati nel Paese d’origine, quindi sono stato costretto a tornare indietro attraversando il Mali, il Burkina Faso ed il Niger.

Dopo un mese, ho fatto nuovamente lo stesso percorso per tornare in Nigeria e raggiungere, finalmente, la Libia.

Quante peripezie… Che situazione hai trovato in Libia?

Sono arrivato in Libia nel 2010 e ci sono rimasto quasi un anno, ancora non c’era la guerra.

Avevo intenzione di restare lì, ho iniziato a lavorare e mi stavo integrando, venire in Italia non rientrava nei miei programmi, speravo di poter tornare presto a casa mia. Dopo però è iniziata la guerra, ed è cambiato tutto…

Ti riferisci al conflitto che ha portato alla caduta di Gheddafi, vero?

Esatto, tutto è iniziato nel 2011.

La Francia ha attaccato la Libia senza preavviso, ed ha grosse responsabilità su quanto è accaduto dopo, perché la guerra ha spostato tutti gli equilibri generando il caos.

L’intervento francese nascondeva interessi di natura economica, anche se nessuno ne parla.

Un altro esempio di “democrazia esportata” di cui è piena la storia dell’Occidente, praticamente…

Purtroppo sì. Nessuno Stato dovrebbe sentirsi legittimato ad invadere arbitrariamente altri territori con la pretesa di imporre l’ordine, bombardando le città ed uccidendo gli abitanti del luogo.

In questi casi alla fine le vittime sono soprattutto i civili: uomini, donne e bambini innocenti.

Cosa puoi dirci di quel periodo?

Non si viveva più bene in Libia, dopo l’inizio della guerra.

Avevo il timore di uscire di casa, perché si correva il rischio di essere mandati a combattere costretti a schierarsi con i ribelli o con Gheddafi. In caso di rifiuto, si subiva il taglio di una mano o si veniva uccisi.

Inoltre, anche fare una semplice passeggiata era diventato pericoloso: si poteva essere colpiti da una scarica di proiettili, o morire a causa dell’esplosione di una bomba. Era possibile uscire solo di notte, perché c’era qualche ora di tregua.

Ricordo un’esperienza che mi ha particolarmente segnato: un giorno, stanco di stare chiuso in casa, ho deciso di uscire per incontrare alcuni amici. Dopo pochi minuti, però, a meno di un chilometro di distanza da noi, sono state sganciate nove bombe in trenta minuti.

Quando cade una bomba non si vede più nulla, il rumore è assordante e inizia a tremare tutto. Vedi i palazzi e le strade crollare, intorno si accumulano le macerie e i corpi senza vita di persone innocenti. E’ stata un’esperienza terribile.

Quel giorno ho capito di non avere scelta: dovevo partire, e l’unica via d’uscita era il mare.

Vuoi parlare del tuo arrivo in Italia?

Sono arrivato in Italia nel 2011, avevo sedici anni.

Appena arrivato a Lampedusa ero spaesato e non sapevo come comportarmi, mi trovavo in un Paese diverso dal mio e dovevo fare i conti con una cultura diversa dalla mia. Però ricordo che ad accoglierci c’era un cartellone con scritto “BENVENUTI”; non sapevo cosa significasse esattamente, ma mi sono sentito rinascere: finalmente ero al sicuro.

Per prima cosa abbiamo svolto tutte le procedure burocratiche, dopo finalmente ho potuto dormire…

Ricordi cosa hai provato in quei momenti?

Per prima cosa ho pensato: sono salvo.

La sensazione più piacevole è stata quella di poter dormire senza il timore di essere svegliato dal rumore causato dall’esplosione delle bombe o dai colpi di arma da fuoco.

Per voi fortunatamente questa è la normalità quindi può sembrare una cosa scontata, ma per chi arriva da zone di guerra purtroppo non è così.

Sei rimasto in contatto con le persone che hai incontrato durante il tuo percorso?

Ho un legame fortissimo con le persone che ho conosciuto in Libia e con quelle che hanno intrapreso il viaggio con me. Si tratta di un legame indissolubile perché abbiamo visto il male insieme, abbiamo visto la morte insieme, abbiamo rischiato la vita insieme e, sempre insieme, abbiamo lottato per sopravvivere.

Quando sei arrivato a Caulonia?

Andiamo con ordine: sono rimasto circa un mese a Lampedusa, prima nel Campo Grande e poi in quello per Minori. Dopo sono stato mandato direttamente a Caulonia.

Qui ho trovato persone molto disponibili: si sono subito aperte con me, ed io mi sono aperto con loro. Venivo da un posto infernale ed ero arrivato in un luogo che finalmente mi offriva la libertà ed in cui vedevo riconosciuti i miei diritti.

Oggi sei completamente inserito nel nostro contesto sociale e parli perfettamente l’italiano. E’ stato difficile integrarsi?

Quando si arriva in un posto nuovo la cosa più importante è comunicare ed interagire con le persone del luogo. Per questa ragione ho iniziato a frequentare la scuola ed ho imparato bene la lingua italiana.

Inoltre, grazie all’amore per il calcio ho avuto modo di conoscere molte persone che ancora oggi fanno parte della mia vita. Fortunatamente mi sono inserito anche nel mondo del lavoro, svolgendo un ruolo all’interno della cooperativa Pathos. Oggi per me Caulonia rappresenta un punto fermo: sono stato sempre costretto a spostarmi da un luogo all’altro ma qui posso dire di sentirmi veramente a casa.

Di cosa ti occupi esattamente?

Faccio il mediatore culturale e fungo da tramite tra la cittadinanza e i ragazzi interni al progetto, grazie anche alla conoscenza di sette lingue, tra quelle ufficiali e i dialetti. Il mio è un compito molto gratificante perché mi consente di confrontarmi con persone che hanno avuto storie simili alla mia e sento di poter rappresentare un punto di riferimento per i nuovi arrivati.

Cambieresti qualcosa del tuo percorso e delle tue scelte?

No, non cambierei nulla del mio percorso nonostante tutto, perché da una situazione negativa sono riuscito a trarre qualcosa di positivo.

Ho affrontato numerose avversità e in alcuni momenti ho temuto di non farcela, ma sono orgoglioso del punto in cui sono arrivato e di ciò che ho costruito.

Come vedi il tuo futuro?

Non so cosa mi riservi il futuro, comunque mi piacerebbe tornare a casa prima o poi.

Non vedo i miei cari da otto anni, e so che se tornassi in Africa avrei bisogno di un po’ di tempo per cambiare nuovamente abitudini, ma spero di riuscire a ricongiungermi con la mia famiglia un giorno.

Secondo te, cosa può fare l’Italia per migliorare in tema di accoglienza ed integrazione?

Si tratta principalmente di una questione di cultura.

Bisognerebbe essere educati sin da piccoli al rispetto della diversità, ma spesso i genitori non sensibilizzano i bambini in modo adeguato.

Anche la scuola ha un ruolo molto importante, perché studiare e conoscere aiuta a superare ogni tipo di barriera.

L’integrazione e l’accoglienza partono dalla cultura e dall’educazione.

Cosa provi nel raccontare la tua storia?

Adesso fortunatamente riesco a raccontare la mia storia abbastanza tranquillamente, ma all’inizio non è stato semplice, parlarne mi faceva male in quanto dovevo necessariamente rivivere molti momenti dolorosi della mia vita.

Come ho detto, sono felice di ciò che ho costruito e sono grato alle persone che mi hanno aiutato, ma provo sofferenza e rabbia se penso a coloro che non ce l’hanno fatta perché sono state uccisi o sono annegati.

Quando sono partito, insieme al mio gommone ce n’erano altri due, che però sono affondati prima di arrivare a destinazione.

Chiunque lasci il proprio Paese d’origine non parte volentieri, preferirebbe rimanere accanto alla propria famiglia, ma purtroppo in alcuni territori questo è particolarmente difficile.

Abbiamo finito. C’è un’ultima cosa che ti senti di dire?

Dalla mia esperienza ho imparato che la vita può presentare delle difficoltà, ma bisogna sempre imparare dalle esperienze negative cercando il lato positivo in ogni situazione.

Qualunque cosa accada, dobbiamo sempre continuare a seminare la pace, senza mai farci sopraffare dall’odio e dai pregiudizi.

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