Bielorussa, non ‘moda’ ma rivolta

Bielorussa, non ‘moda’ ma rivolta

di Tiziana Barillà

Lukashenko è un ex direttore di kolkhoz che, una volta caduto l’impero sovietico, ha preso posto come presidente (nel 1994) e non ha più schiodato.

Lo “scarafaggio con i baffi” è un nazionalista, populista, malato di ordine e disciplina, ossessionato dal ‘nemico’ straniero.

In altre parole, Lukashenko è il residuo del peggio che l’Unione sovietica ci ha lasciato, l’emblema di un sistema autoritario che ha l’ardire di dirsi popolare, persino “comunista per la democrazia” (così chiamò il suo partito quando c’era da reinventarsi).

All’ennesima elezione sua e del suo apparato di potere, il 9 agosto, che ve lo dico a fare con oltre l’80%, un mare di persone si è riversato in piazza per protestare contro brogli e irregolarità, contro una dittatura che adesso per preservarsi può contare pure sull’appoggio di Zar Putin.

Il batka (il piccolo padre, così lo chiamano i suoi sostenitori) reprime il dissenso, con arresti di massa e torture. Si contano già più di 6.700 arresti, almeno tre morti in custodia delle autorità e almeno sei agenti di polizia dimessi in segno di protesta. Mi sorprende chi, ancora oggi, confonde l’autoritarismo con il comunismo e ne difende l’agire con tifo da stadio. Anzi no, non mi sorprende, mi fa schifo perché finge di non sapere che non può esserci giustizia senza libertà. E in Bielorussa non ci sono né l’una né l’altra

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