Giovanni Paolo II, un santo subìto

Giovanni Paolo II, un santo subìto

Nell’aprile del 2005, quando papa Giovanni Paolo II morì dopo una lunga malattia, si levò una smania collettiva per esaltarne la figura. Per settimane i media vennero monopolizzati, fecero a gara nel proclamare le virtù di quest’uomo, il suo ruolo pastorale ma anche politico. Un moto di opinione cattolico dal basso, fin dai primi giorni, reclamò la santificazione. Lo slogan “Santo subito”, uscito nei primissimi giorni da piazza San Pietro tra i cattolici, diventò virale. È ormai espressione usata così spesso da essere richiamata in senso ironico.

Si scatenò una vera e propria ossessione mediatica, che si traduceva in una costante propaganda e riscrittura della storia. Non si poteva accendere la tv senza sentir dire che Giovanni Paolo II era buono, bravo, bello. Aveva persino distrutto il comunismo. In questo bombardamento mediatico tra i più scettici sempre di più ronzava l’immagine fantozziana: “È un santo! Un apostolo!”. La canonizzazione andò spedita. Il Vaticano assecondava la piazza tanto da aggirare i propri protocolli, solitamente cauti. Da poco intronizzato, a fine aprile, Benedetto XVI si affrettò a emanare una dispensa per far partire la causa di beatificazione prima dei canonici cinque anni dalla morte. Nel 2014 Francesco lo proclamava santo.

Giovanni Paolo II, nonostante sia stato esaltato come “moderno”, vicino alla gente e persino sprint (da buon “megadirettore” era anche atletico, tanto da darsi allo sci), ha tracciato quel profondo solco di conservatorismo che Benedetto XVI ha continuato. E che Francesco, politicamente più vicino al presunto progressista Paolo VI e mediaticamente di ispirazione wojtyliana, di certo non ha chiuso. È stato lo stile di Wojtyla quello di far pesare la sua presenza scenica e l’ingerenza politica per schierarsi nettamente contro ogni possibile avanzamento sui temi etici, l’aborto, l’omosessualità e contro possibili riforme interne alla chiesa (come il sacerdozio femminile). Non a caso nella sua patria polacca, dove vige una pesante cappa di confessionalismo cattolico, ha lasciato un indelebile marchio.

Oggi si torna mettere in dubbio l’aura di “santità” di Giovanni Paolo II. Con l’uscita del rapporto vaticano sulla condotta del cardinale (ormai ex) Theodore E. McCarrick, accusato di abusi sessuali, è venuto fuori che Wojtyla aveva promosso nel 2000 con la porpora il controverso prelato, nonostante le accuse. Il New York Times, in un articolo del corrispondente in Italia Jason Horowitz che ha avuto subito la ribalta internazionale, si è chiesto se Wojtyla non sia stato «santificato troppo presto». Il prelato statunitense è stato sottoposto al giudizio della Congregazione per la dottrina della Fede su richiesta di Bergoglio nel 2018, e infine epurato. Wojtyla, ossessionato dall’esperienza comunista, tendeva a derubricare le accuse ai preti come strumento politico per danneggiare la chiesa. Dal canto suo il cardinale Stanislaw Dziwisz, fedelissimo di Giovanni Paolo II, aveva convinto il papa ad appoggiare McCarrick “per le sue buone relazioni con la Casa Bianca”.

Ma l’opaco retaggio wojtylano non finisce qui. Oggi proprio Dziwisz, potente ex segretario personale di Giovanni Paolo II, è accusato dai media polacchi di aver coperto abusi sessuali da parte di preti. Un’inchiesta mandata in onda dall’emittente TVN24 arriva a sostenere che abbia ricevuto dei soldi. Accuse sdegnosamente respinte. Intanto si scopre che un altro esponente della chiesa polacca da poco scomparso alla veneranda età di 97 anni, l’ex arcivescovo di Breslavia Henryk Gulbinowicz, qualche settimana fa aveva perso la facoltà di usare le insegne episcopali. La pesantissima pena è stata comminata dal Vaticano per insabbiamenti su abusi sessuali da parte di preti pure nella sua diocesi, collaborazionismo con il regime comunista e personali condotte omosessuali, poco in linea con la morale cattolica e con il suo incarico.

Lo scandalo che sta imbarazzando la chiesa polacca ripercorre i canovacci già visti in Irlanda e negli Usa. Non è emerso oggi, se ne parla da tempo: il documentario indipendente Tylko nie mów nikomu (“Basta non dirlo a nessuno”) del giornalista Tomasz Sekielski, uscito nel 2019, ha dato una scossa alla diffusa omertà, spingendo anche la magistratura a muoversi. E pure il Vaticano viene svegliato dal torpore: Francesco ha preso provvedimenti per il vescovo di Kalisz, monsignor Edward Janiak, inchiodato per non aver denunciato un altro prete, come emerso in una nuova inchiesta di Sekielski del 2020, Zabawa w chowanego (“Giocare a nascondino”). In Polonia la società sembra sempre più stanca dello strapotere clericale, come dimostrano le imponenti manifestazioni per difendere la possibilità di abortire. Il cemento del nazionalismo cattolico anticomunista, che ha unito la Polonia traghettandola verso la democrazia e contribuiva a chiudere un occhio, non regge più.

La maggior parte degli scandali della pedofilia clericale insabbiati dalle gerarchie vaticane, che hanno poi investito la chiesa minandone pesantemente la credibilità, sono maturati proprio durante i quasi 27 anni di regno ininterrotto di Giovanni Paolo II. Scomparso il carismatico leader, sono iniziate a cedere le dighe. Tra le altre, sono venute fuori le storie ben poco edificanti sul fondatore dei Legionari di Cristo, padre Marcial Maciel Degollado, molto stimato da Wojtyla e dal suo entourage. Ratzinger, una volta eletto a papa Benedetto XVI, si è trovato con il cerino in mano. Nel 2006 la BBC mandò in onda il documentario Sex crimes and the Vatican di Colm O’Gorman, che faceva esplodere lo scandalo dei preti pedofili in particolare in Irlanda. Durante il pontificato Ratzinger cercò di mettere delle toppe peggiori del buco, con strumenti del tutto inadeguati spacciati come risolutivi, come la vecchia lettera Crimen sollicitationis. Infine dopo le dimissioni arrivò a dare la colpa al sessantotto. Benedetto XVI è diventata la bad company su cui scaricare responsabilità, ora che Francesco ha ostentato con grande ritardo un piglio più duro sulla pedofilia.

Se certe questioni fossero emerse prima, avrebbero creato non pochi imbarazzi ai canonizzatori del papa polacco. Chi difende Wojtyla dice che è stato ingannato e ha fatto errori di giudizio, o nega. Proprio Giovanni Paolo II mise in moto a pieno regime la macchina delle santificazioni, con i relativi interessi anche e non solo propagandistici e di cordata, riducendo da due a uno i “miracoli” necessari per la proclamazione. Forse qualche altra testa cadrà e qualche prelato che sperava in future promozioni o canonizzazioni rimarrà deluso.

Da laici è ozioso fare elucubrazioni sul senso della santità, sui criteri autoreferenziali per affibbiarla a qualcuno, o pretendere che qualcuno perda le stellette. Non esistono “santi”. Nel collaudato meccanismo di autoconferma cattolico, si troverà sempre qualche persona sfortunata – soprattutto qualcuno afflitto da una malattia – che nella disperazione invocherà uno dei tanti semidei del cattolicesimo romano. Una volta guarito, il miracolo verrà attribuito al personaggio adorato, certificato con processi tutti interni che si piccano di avere la pretesa della scientificità sebbene siano corrosi da bias, con il timbro di medici compiacenti o succubi. Per la chiesa c’è un santo per ogni stagione. Intanto Wojtyla ha ottenuto il timbro della santità. Tanto basta a far sfumare sue eventuali responsabilità o leggerezze nell’oleografica figura del santino.

Valentino Salvatore

Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti

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