Il rider Sebastian e la catena di montaggio

Il rider Sebastian e la catena di montaggio

Sebastian Galassi aveva 26 anni e lavorava a Firenze come rider per Glovo. Solo così poteva pagare gli studi di grafica per il web: la sera indossava l’uniforme di servizio e con la sua bici cercava di correre quanto più veloce possibile per accontentare i clienti e attraversare il dolore di una situazione precaria che accomuna migliaia di uomini e donne.

La sera del 2 ottobre era in ritardo su una consegna e per questo è stato licenziato immediatamente.
Lo hanno licenziato senza sapere che Sebastian fosse morto in ospedale dopo essere stato travolto da un Suv insieme alla sua bicicletta.
Lo hanno licenziato senza sapere che quel giovane avesse perso la vita mentre cercava di restare al passo con i ritmi dettati da un asettico algoritmo che disconosce le variabili dell’esistenza.
Lo hanno licenziato con la facilità con cui ci si sbarazza di un oggetto non più utile.

Il mattino seguente, infatti, nella sua casella di posta elettronica è arrivata la comunicazione automatica della multinazionale che gli notificava il licenziamento per mancato rispetto dei termini contrattuali.
La piattaforma si è successivamente scusata con la famiglia per il messaggio, definendo l’invio un errore del sistema: ma l’errore non è il messaggio, l’errore è il sistema.

Nella storia di Sebastian si racchiudono tutte le criticità di un modello economico disumanizzante e privo di tutele, in cui il lavoratore non è un essere umano ma l’anello di una catena di montaggio e conta meno della pizza che riesce a consegnare sano e salvo, o che non consegna perché violentemente travolto da un’auto.

Foto di hjrivas da Pixabay

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