Gaetano Saffioti: “Tutti i comuni dovrebbero fare come Caulonia”

Era il mese di settembre del 2013. I consiglieri del gruppo di minoranza “Insieme per Caulonia” Domenico Campisi, Domenico Mercuri a Attilio Tucci portarono in consiglio la proposta di Mario Congiusta: modificare lo Statuto affinché venisse prevista la costituzione automatica di parte civile del Comune di Caulonia nei processi di ‘ndrangheta. Il sindaco Ninni Riccio e l’assessore Cagliuso si espressero favorevolmente, e la proposta venne approvata all’unanimità.
Un fatto epocale che «non può non ricevere un forte plauso. Una modifica statutaria di questo tipo dovrebbero attuarla tutti i comuni italiani. Solo attraverso la messa in atto di azioni concrete su fronti diversi la ‘ndrangheta può essere sconfitta. Ne sono convinto».
A dirlo, non è un semplice cittadino, uno qualunque. Ma sono parole di Gaetano Saffioti, titolare della “Calcestruzzi Saffioti”.
La sua, è la storia di «un uomo esemplare», come scrisse il giudice Fulvio Accurso nelle motivazioni della sentenza con la quale mandò al gabbio decine di ‘ndranghetisti della Piana di Gioia Tauro. Un ribelle per alcuni, un infame per molti altri. Almeno all’inizio.
I fatti. Correva l’anno 1981. Dopo una lunga gavetta nel frantoio oleario paterno e le prime esperienze nel movimento terra per conto terzi, Saffioti decise di mettersi in proprio. Iniziò a partecipare ai primi, piccoli appalti pubblici. Ma era ambizioso e decise di installare nella sua ditta un impianto per calcestruzzi e misti cementati. Il primo in Calabria, tra i primi in Italia. Pensava che avere strumenti innovativi, gli avrebbe consentito di entrare nel mercato senza chiedere favori a nessuno. Solo leale competizione.
Ma così non fu. Quelle brutte facce che chiedevano il pizzo erano ovunque. Sempre. Come se fossero un’istituzione riconosciuta dalla società. Un’istituzione putrida e parallela della quale, Saffioti, in poco tempo, divenne complice e funzionale. Pagava il pizzo, assumeva gli operai che loro decidevano, si riforniva dove loro gli ordinavano. Se tergiversava, prima lo intimidivano e poi gli spiegavano le motivazioni della ritorsione.
L’azienda intanto cresceva e arrivò ad occupare 67 dipendenti e a fatturare oltre 15 milioni di euro. Ma l’imprenditore era sofferente. Si sentiva soffocare. Era il 2001 quando comunicò ad uno degli sgherri che in quel modo non si poteva più andare avanti. «Se mi denunci, appena esco di galera, ti ammazzo» gli rispose.
Eppure, nonostante la minaccia di morte, l’imprenditore palmese li denunciò lo stesso. Al giudice Pennisi, della Dda reggina, non consegnò solo parole e proclami. Sapeva che gli investigatori avevano bisogno di rispondenze oggettive alle sue affermazioni. Per questo, da tempo, aveva iniziato a registrare ogni cosa: le minacce, i passaggi di soldi, gli incontri con boss e latitanti. Le prove c’erano, ed erano inconfutabili.
Un anno dopo scattò l’operazione “Tallone d’Achille”. Vennero arrestati 48 malavitosi, sequestrate nove imprese e confiscati beni per cinquanta milioni di euro.
Da quel giorno, tutto cambiò. Saffioti e la sua famiglia entrarono nel programma di protezione, ma rifiutarono il trasferimento in località segreta e il sussidio da parte dello Stato: «non potevo andare via e abbandonare la mia azienda. Sarebbe stata la peggiore delle sconfitte. Per questo ho deciso che se cambiamento deve essere, deve essere fatto nel territorio».
Ciò nonostante, divennero gli infami. I traditori. Iniziarono a fargli terra bruciata intorno. I parenti si allontanarono. Il fatturato crollò del 95%. Fornitori, operai e tecnici si dileguarono. Spariti. Finirono le commesse. Finanche i lavori in corso d’opera vennero bloccati e senza nessun tipo di risarcimento. Anche la parrocchia locale fece la sua parte, purtroppo. In quel periodo la curia doveva movimentare della terra per costruire un edificio. Saffioti si offrì di farlo gratis, quel lavoro. Loro, non solo rifiutarono la proposta, ma affidarono l’incarico ad un’altra impresa, pagandola profumatamente. Dileguate anche le istituzioni palmesi. La “Calcestruzzi Saffioti” prima era un porto di mare. Governatori di Regione, consiglieri regionali, deputati, politici di ogni ordine e grado facevano a gara per attingere al bacino di voti che ruotava intorno a quella attività imprenditoriale. Dopo le denunce, il deserto. La terra bruciata.
Ma Gaetano non mollò. Si concentrò invece sul lavoro. Era quella la priorità. Ripartì da zero. Iniziò a darsi da fare per trovare le alternative. Provò a fare dei lavori fuori dai confini regionali, ma ha sempre trovato loro. A Massa Carrara, ad esempio, hanno dato alle fiamme sette dei suoi automezzi di cantiere. A quel punto decise di tentare all’estero. Ma solo per lavorare. Perché la sua vita era ed è qui, in terra calabra. Andò in Francia e riuscì ad ottenere una commessa per l’ampliamento dell’aeroporto Charles de Gaulle. Poi si spostò in Spagna, in Olanda, in Romania, in Bulgaria, in Africa e addirittura in Asia. Per approdare infine negli Emirati Arabi, dove riuscì a battere la concorrenza delle multinazionali americane per alcune opere nel cantiere di “Dubailand”, il più grande parco giochi del mondo. Sempre a Dubai, riuscì a mettere a punto un particolare tipo di cemento trasparente, che suscitò l’ammirazione degli ingegneri americani del colosso Tatwer, i quali chiesero a Saffioti di poter apprendere da lui i segreti di quella geniale innovazione edilizia.

Saffioti

La rinascita era cominciata, e grazie agli ottimi risultati ottenuti all’estero, Saffioti riuscì a mantenere in piedi anche l’attività in Calabria. Riprese a partecipare alle gare d’appalto. Su 967, però, non ne vinse nemmeno una. Ma non si arrese. Intorno a lui il clima stava cambiando, la gente iniziava a capire e le imprese sane tornarono a fornirsi da lui.
L’azienda riprese a crescere e ad oggi «la situazione è tornata quasi alla normalità. Attualmente lavorano per me 34 persone e il fatturato si aggira intorno ai 2,5 milioni di euro, solo in Calabria. Un risultato straordinario se si considera l’avversione del sistema mafioso e il gravissimo periodo di crisi che stiamo vivendo. Abbiamo dimostrato concretamente e non con le puerili parole – conclude Saaffioti – che ribellarsi all’oppressione mafiosa è possibile. Che denunciare è la scelta giusta. Che in Calabria, fare impresa in modo sano e all’avanguardia non è utopia. Ora non ci sono più scuse. La strada è stata tracciata».

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