San Nicolello: la traccia più antica dei cauloniesi

San Nicolello: la traccia più antica dei cauloniesi

caulonia vista lato nord

La si legge nel codice genetico dei cauloniesi la difficoltà di vivere la pianura, e quando dicono paese lo sanno solo pensare affastellato in cima alle alture, da dove i panorami vibrano emozioni nella profondità circolare delle visioni mutevoli, come guardati dal tetto della terra. I loro progenitori si rifugiarono nelle asprezze della rocca, e confidarono alla forza del passo il segreto della sopravvivenza. E, a vederla, Caulonia è un’isola, una cresta frastagliata elevata su due vallate, fulcro degli spazi dei cieli e degli orizzonti sconfinati; pare una nave antica con la prora e la polena volte al Mediterraneo, e come ogni recondito recesso di questo mare delle prime civiltà gronda storia, paesaggi, bellezze naturali. Per scoprire la sua anima bisogna addentrarsi nella selva dei vicoli, affacciarsi dalle cigliate rupestri, scandagliare ogni pietra delle cascate immobili che formano l’abitato.

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Dall’esile spiazzo del nuovo belvedere di via Strati, a nord-est del paese, la vista vola sulla vallata dell’Allaro. Di notte compaiono le luci delle case sparse e degli agglomeri abitativi dei paesi vicini incastonati nei fianchi e sui crinali delle colline come una costellazione di fiammelle riflessa dall’universo sullo specchio della terra. L’altezza è vertiginosa, e dalla stessa le nari annusano nell’aria sensibile gli odori e gli umori delle stagioni e del tempo. D’inverno giunge algido il soffio rifranto di tramontana, a primavera è palpabile il formicolio gemmato dei clivi e nicolello4delle prendici, e nelle calde serate estive risalgono da fondovalle le brezze frizzanti della montagna, incanalate nell’ampio imbuto della fiumara che affonda il suo meandro nelle gole dei boschi delle Serre. L’autunno lascia cadere nei precipizi le ombre arrugginite dai tramonti cremisi, languidi e mesti.

I ruderi rimasti in piedi paiono testimoni indifferenti alle voragini della solitudine ed alle intemperie, affiorano all’improvviso dal buco nero che avvolge la storia del paese lungo le età romana e bizantina, fino al primo nicolello2millennio. La cristianità medievale visse l’arrivo dell’anno mille con l’incubo della fine del mondo, e vistasi risparmiata ai flagelli dell’Apocalisse si rivolse alla fede con maggior ardore ed intensificò i pellegrinaggi in Terra Santa per espiare i propri peccati nelle tribolazioni del viaggio e la visita dei luoghi dove si svolsero la vita e le opere di Gesù Cristo. Il 22 febbraio del 1087, in cima alla rupe e nel petto di Ariberto Asciutti dovevano agitarsi ancora gli spettri terrifici dei cavalieri delle profezie escatologiche. In quel giorno, il nobile nicolello6Ariberto, rassicurato dalle parole del Salmo 84 –“beato chi trova in te la sua forza e decide nel suo cuore il santo viaggio”-, rogò un testamento che lasciava tutti i suoi beni ai poveri di Castelvetere nel caso nel suo viaggio verso Gerusalemme avesse incontrato la morte. Dovette partire subito per raggiungere i luoghi santi sotto il dominio arabo, perché lo troviamo già di ritorno il 9 maggio dello stesso anno, sbarcato a Bari con i 61 marinai che trafugarono a Myra, dalle mani dei musulmani, parte della salma di san Nicola.

Rientrato in patria, il nobile castelveterino, conquistato dalle reliquie miracolose del santo taumaturgo, fece costruire una chiesa ad una navata detta di san Nicolello, nel punto in cui ora si dispiega il belvedere di via Strati. Il disastroso terremoto del 1783 la distrusse assieme a tutte le fabbriche di epoca bizantina e normanna, e non fu più ricostruita. Forse è rimasta solo qualche pietra murata, sicuramente è identificabile l’ubicazione e tutto andrebbe ricordato con uno straccio di cartello per farlo uscire dall’anonimato in cui è caduto.

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