Caulonia centro: uccise la moglie incinta e il suo amante

Caulonia centro: uccise la moglie incinta e il suo amante

Caulonia centro: uccise la moglie incinta e il suo amante.

Dalle vette nascoste della montagna una nuvola larga e ingrigita si staccava, correva accigliata verso il mare sereno, e al suo passaggio l’ umore del cielo diventava uggioso e cattivo. La cupola celeste mutò presto come un cristallo infranto, e sulla terra un vento improvviso scosse gli alberi, fece tremare le foglie con un fruscio che annunciava la pioggia, e la pioggia venne giù precipitosa per la vallata e le sponde dell’ Amusa, zampillò sui ciottoli attondati della fiumara e scomparve nella rena assetata. Dal fondo dei pioppi si levò un passo rapido di foglie scroscianti, nell’ aria si sparse l’ odore acre delle zolle e delle stoppie bruciate dal sole. Le cicale compresero il cambio della stagione e smisero il frinire incessante nei boschi degli olivi con le cime protese, impolverate e stracche. Dai sarmenti cadevano i pampini arrugginiti e smorti, solitari giacevano i palmenti sulle aie con le pance vuotate e il vino novello attendeva sbollendo nei bassi e bui magazzini il fresco autunnale, Le lenze segrete degli orti dall’ ombra gioivano come ragazzi scalzati in bilico sui muri a secco, e della stessa gioia ridevano i giardini d’ arancio coi frutti ricolmi, ancora verdissimi e acerbi. Le greggi tenute in branco dai cani abbaianti abbandonavano frettolose i pascoli e i dirupi, e i pastori le incitavano brandendo il bastone per aria, fischiando con l’ indice e il medio ficcati nella bocca tra lingua e palato. I contadini sui fianchi e i crinali delle colline, per i lubrici sentieri, spingevano e tiravano gli asini e i muli, guardavano a mezzogiorno con incredula speranza: il mare era appiattito nel balenio di una fetta di cielo ancora limpida e sgombra, ma lo scoccare del primo fulmine frantumò l’ ultimo scampolo di sole in un pulviscolo contorto, luminoso e accecante. Splendette per un attimo una miriadi di colori impressa a fuoco sulle foglie, sui rami e sui tronchi degli alberi resi spettrali con le loro forme ritagliate da una lama di luce arzigogolante, poi la terra solitaria e spaventata affogò in una coltre plumbea e densa, spense la vista nella caligine scialba e inodore. La gente e gli animali fuggiaschi in tutta la valle scomparvero nel frastuono della pioggia più fitta e incessante. I campi riarsi bevvero avidi finché l’acqua non divenne torbida e invase i canali e le pieghe ed ogni accidenza. Le talpe disperate fuggivano dalle tane ricolme, mentre cantavano in coro le raganelle nelle pozze tracimanti tra i cespi degli oleandri e nel folto dei canneti, ed un tumulto di lampi e di tuoni precedeva la piena fragorosa della fiumara, giungeva a destare coi rombi rotolanti le lumache dormienti sotterra. Quella terra finora conosciuta calda e famigliare, sotto le fustigazioni del cielo, era divenuta un altro mondo ostile e profondo.

Caulonia dall' alto

Una donna, con la schiena e le spalle curvate in uno sforzo vano, da albero in albero cercava riparo. Era inzuppata fino al midollo, quando dall’ uscio di un casolare un braccio teso con larghi gesti e una voce alta e greve la chiamava:

“Maria, dove volete andare? Venite qua che c’ è posto pure per voi!”

La donna cambiò direzione e corse verso l’ uomo che la invitava a dividere un tetto provvidenziale. Giunta sulla soglia dell’ antro stretto incespicò e stette per cadere, ma lui le tese le braccia e la trattenne, la rivoltò con la faccia gocciolante sotto il suo naso aquilino. Rideva, e la sentì morbida e tremante come una foglia percossa, scorse il seno ansante e pieno d’ affanno. Lei chiuse gli occhi e sentì un respiro tagliente, le braccia virili e villosi; provò un formicolio che le attraversava tutto il corpo e quella dolce spossatezza da tempo dimenticata o, forse, mai conosciuta. Porse le labbra appena socchiuse, fece come per bere un liquore caldo di un paradiso proibito, e tutto annegò in una irresistibile attrazione, Il colorito pallido e bruno di quei volti ormai appiccicati da un bacio insaziabile, tramutò nel rosso acceso del desiderio carnale. Erano soli. Un uomo e una donna, e null’ altro, stretti nell’ abbandono dei sensi, nell’ umidore di un letto di strame, nel rifugio della dimenticanza, lontano dai dolori e dalle ansie di un mondo troppo impigliato nelle cataratte del cielo, e avvenne quello che doveva avvenire, scritto nell’ espressione più elementare e creativa della natura, nell’ essenza più intima dell’ umanità spersa in un vissuto d’ affanni. Si udirono confusi i gemiti del piacere spegnersi lenti come i rivoli d’ acqua che cadevano dai tetti e dagli alberi dopo una pioggia lontana, mentre la notte stendeva silente il velo di un volto calmo di velluto impalpabile, e lasciava dileguare i sospiri languidi nelle voragini di un sonno ostinato. Maria, di schianto si svegliò temprata dal lungo viaggio sensuale, vide il sottile fascio di luce del nuovo giorno entrare dalla porta socchiusa del casolare. Quello spiraglio la riportò alla realtà della vita e rabbrividendo esclamò:

“Se lo sa mio marito m’ ammazza …”

L’ uomo confitto nel sonno profondo non la udì e continuò a dormire. All’ intorno cinguettavano gli uccelli e brillava al sole nascente una vispa costellazione di pozze impettite.

Dal giorno del temporale di fine estate passarono sei mesi. Sei mesi bastarono per rivoltare quel mondo ammorbato negli interstizi confinati nell’ universo. Nel grembo di Maria crebbe la creatura concepita dall’ atto d’ amore che covava nei propositi degli amanti, già cognati. Maria era sposata con Angelo, e il suo nuovo uomo in paese lo chiamavano Banaja, che a sua volta aveva sposato una sorella di Maria. Angelo, mulattiere, e Banaja, disoccupato senza mestiere, decisero di tentare la sorte oltre l’ oceano. Partirono per l’ America e là vi restarono a condurre la vita dura dei bordanti. Ma Banaja si stancò dopo qualche tempo: il suo Duce stava facendo grande l’ Italia e volle tornare per prendersi una parte di gloria del regime. Corteggiò assiduamente Maria, semplice e mansueta, finché non riuscì a mettere le corna al cognato Angelo, alla sua stessa moglie rinchiusa nel silenzio tombale che rilegava le donne. Nel groviglio dei tradimenti si era radicata e cresceva una nuova vita, candida e innocente, a cui nessuno pensava. Era la prova dell’ onore infranto. E questo bastava. Bastava alla assetata mentalità arcaica dei singoli e della comunità. Nessuno vide che Maria, additata e invisa come una concubina, era diventata una madre, la condizione che elevava i suoi sentimenti e ne faceva un’ altra donna. Solo lei con amore materno sentiva gemere nella sua carne viva un germoglio fragile, accarezzava dolcemente il suo grembo e alzava gli occhi al cielo pieni di pianto e di paura. Vedeva un buio fitto incombere su un futuro incerto o, forse, inesistente del tutto.

Il paese con le case affastellate sulla rupe si predisponeva come il palcoscenico di un grande teatro su cui doveva andare in scena la tragedia più antica del genere umano. Le “parti” erano già scritte e quando anche Angelo, informato dalla disgrazia che aveva colpito la sua casa, tornò dall’ America e comparve con la valigia ciondolante nella mano ferma, si aprì il sipario e tutti gli attori furono presenti e pronti per recitare.

“Dimmi chi ti manca pe’ esseri voi?” (Dimmi cosa ti manca per essere un bue?)

“L’ unghia spaccata, ca li corna i ‘ndai!” (L’ unghia spaccata perché le corna ce l’ hai!)

Accompagnata da strimpelli di chitarra, una voce cantilenante trafiggeva la notte del rione San Biagio. Da sotto una finestra il crocchio delle serenate, con al centro Banaja tracotante, lanciava il dileggio e la sfida. Angelo li colse nella freddezza delle sue insonnie e decise che il tempo atteso della vendetta era arrivato.

Caulonia via

Una striscia di cielo ambrato dalla striatura di nubi giocose nella luce invernale squarciava la stretta via che da piazza Seggio conduceva al Carmine. I muri scarnati mostravano nudo il microcosmo di pietra in cui si era annidato l’ intero paese da più di un millennio. Antistante la chiesa del Carmine v’ era un piazzale sporto sulla cigliata della rupe detto “Bestia”, rievocava i bastioni armati con i cannoni che difesero la città dalla porta principale dagli invasori. Da lì si solea ammirare il tramonto: il sole sprofondava nel suo orizzonte, avvampando il cordone delle colline che partendo dai terrazzi dei calanchi argillosi affacciati sul mare giungeva alla montagna con un crescendo di profili ondeggianti, di picchi e falesie stagliati nel caleidoscopio delle visioni mutevoli. Banaja al trasporto romantico di quei crepuscoli non sapeva rinunciare. Nel giorno fatale, come ogni tardo pomeriggio, fiancheggiato da due amici, si recava al Carmine. Angelo aveva spiato a lungo quella abitudine puntuale come l’ orologio del campanaro. S’ incamminò deciso nel senso contrario. Li incontrò a due passi della chiesa di San Zaccaria. Li salutò ossequioso per non destare sospetti. I tre risposero, scambiarono sguardi con l’ aria soddisfatta di chi vedeva il nemico sottomesso, rinunciatario e rimpicciolito, ma non ebbero il tempo di dirsi una parola. Angelo, appena li ebbe alle spalle si voltò di scatto con il braccio teso e la pistola in pugno. Gridò:

“voltati Banaja, io non sono come te che pugnali alle spalle.”

Banaja si voltò e ricevette il primo colpo diritto al petto. La via stretta esplose e il fragore si diffuse con gli echi vaganti in un dedalo cieco. Coraggiosamente gli amici che gli stavano accanto scapparono, si dispersero i passanti in un rincorrersi di grida, di battiti di porte, finestre e balconi. Rimasero soli con tutto il paese attorno che tendeva le orecchie oltre le pareti delle case. Banaja vide i muri e i selci traballare convulsi e l’ uomo che gli stava davanti immobile, fisso nell’ ira che non si placava. Incurvò le spalle in un ghigno di dolore, portò istintivamente le mani al petto come volesse suturare la ferita da cui il sangue caldo sgorgava a fiotti e zampillava sulla strada acquietandosi in macchie larghe. Non ebbe il tempo di sospirare “mamma mia” che già altri due colpi gli trafissero nuovamente il torace come se Angelo glielo volesse dilaniare per strappargli il cuore dell’ ingratitudine e delle offese subite. Il quarto colpo all’ inguine fu inutile, ma quella società si nutriva della crudeltà di certi atti simbolici. Banaja accasciato su se stesso con lo sguardo spento e privo di vita, cadde prono con un tonfo sordo: la faccia rivolta contro i selci mostrava l’ occhio spalancato dallo sbigottimento, il sangue formava un lago rosso che si disperdeva nei rivoli disegnati dalle scalfitture delle pietre. Sull’ altare della chiesa di San Zaccaria un soffio misterioso e potente spense le candele accese al Cristo Trionfante, raffigurato nell’ affresco bizantino posto nell’ abside in alto. Stava assiso sul trono con accanto la Madre e il giovane apostolo Giovanni. Con la mano destra alzata e l’ indice teso al cielo predicava inascoltato il perdono e la fratellanza alle anime indurite dall’ odio.

Caulonia Vie

Seguì il silenzio irreale dell’ attesa. Il tempo rimaneva fermo a guardare attonito. Angelo ripose la pistola con la canna rovente nella cintura dei pantaloni; abbottonò il doppio petto della giacca; scansò le pozze di sangue e ritornò sui suoi passi. Ne fece pochi, ed entrò nella cantina di Nestero, chiese un bicchiere di vino, lo tracannò in un solo sorso come se avesse bisogno di ravvivare il fuoco della follia omicida. Pagò il conto. Fece altri pochi passi finché non fu davanti alla sua casa. Aprì la porta e chiamò la moglie. Maria sapeva tutto, era pronta a pagare la sua colpa, e comparve sul pianerottolo in cima alla scala. Non vi furono parole o lamenti. Posava le mani sul grembo per proteggere la sua creatura con l’ ultima carezza. Il petto libero, calmo ricevette due colpi in rapida successione. Maria poggiò la spalla sul muro e si lasciò cadere. Cadeva. Cadeva, lentamente senza distogliere le mani dal grembo. Era lucida l’ agonia che la portava ad adagiarsi su un campo indistinto di papaveri rossi. Poi chiuse gli occhi come per prendere sonno.

Angelo si costituì al carcere sotto San Vito. Consegnò la pistola e dichiarò di avere commesso due omicidi che furono riconosciuti come delitti per motivi di onore. Fece qualche mese di carcere e fu liberato. Il paese l’ accolse festante. Un corteo con la banda in testa sfilò per la via principale e chiuse il sipario.. La belva sanguinaria dell’ arretratezza tornò a casa soddisfatta.

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